Certe storie sono fatte per essere raccontate, altre per essere dimenticate, altre ancora per essere inventate.
Questa è la storia di quella volta che, mentre pedalavamo su per la Litoranea, la mia compare ha bucato una gomma e siamo state soccorse da una giovane e graziosa ciclista anglofona di origine incerta.
Ci trova così: una completamente nera di grasso di catena – con tanto di mezzo baffo alla Hitler – intenta a cercare adesivi per terra, che vorrebbe usare come pezze posticce; l’altra a girare e rigirare un guanto usa e getta come se fosse un cubo di Rubik, alla ricerca di un’improbabile soluzione in stile McGyver.
La giovane e graziosa ciclista anglofona di origine incerta, provvista di tutta l’attrezzatura utile alla riparazione, ci fornisce una toppa e della colla, che maneggiamo con lo stesso fare esperto di un quindicenne alle prese col clitoride della sua fidanzatina.
Nel frattempo abbozzo un paio di battute in inglese, in un tentativo maldestro di smorzare l’imbarazzo, ma lo sguardo della nostra soccorritrice si fa sempre più eloquente: ci ha definitivamente e irreversibilmente classificate come abelinate.
Per conservare quel poco di dignità rimastaci, decidiamo di congedarla e finire il lavoro da sole: non insiste e si rimette in sella, rispondendo al nostro “tenchiu” con qualcosa che non capiamo, ma che nella nostra fantasia suona come un “pensatemi!” seguito da svariati emoji a forma di cuore.
Nel finale alternativo di questa storia, la giovanotta di cui sopra si innamora di me, ci sposiamo seduta stante e partiamo insieme per un cicloviaggio di nozze alla volta dell’infinito, lasciando la mia compare nella merda.