Le mie ospiti russe sono madre e figlia e parlano solo russo, e io in russo non so dire neanche Svetlana, che a quanto pare si pronuncia comodamente come se non contenesse manco uno straccio di vocale.
Provo con l’inglese, ma niente. Propongo altri idiomi di cui ricordo dai sei ai dieci vocaboli, tipo il francese e lo spagnolo, ma niente. Spezzino? Niente. Non sapendo più che pesci pigliare, butto lì che so un po’ di carrarino perché conosco un sacco di gente di Sarzana che pensa di essere di Carrara, ma oh, niente: sguardi vacui e facce a forma di punto interrogativo.
Per un po’ comunichiamo come se fossimo tre sordomute che sono state abbandonate nella foresta appena nate; poi a Svtln compare una lampadina sopra la testa, tira fuori il cellulare dalla tasca e mi scrive sull’app di Airbnb, che ha la traduzione automatica. Fottuto genio russo. Certo, se prima sembrava il gioco dei mimi, ora siamo come due adolescenti che chattano a una cena di famiglia per dirsi le cose segrete che gli altri non devono sentire. Solo che siamo in piedi in salotto, l’una di fronte all’altra, come due belinone, mentre la madre di Svtln (Ttn) non so dove sia finita, ma sospetto stia facendo la cacca.
Cacarsi

Ogni volta che vengo qui faccio la stessa foto. Cambiano le stagioni, il colore del cielo, la posizione della bici, ma è sempre la stessa inquadratura. Quella strada so dove porta ma non l’ho mai percorsa per più di qualche centinaio di metri perché mi caco. È una roba stupida che fa tanto parte di me, cacarsi per cose semplici per cui non c’è niente da cacarsi. Una roba stupida che mi fa restare lì, seduta su quel masso a forma di bara, a guardare quel panorama infinito come se lo stessi rubando a qualcuno che se lo merita di più.
I miei ospiti cinesi, i miei ospiti coreani e un cordiale signore
Sapete come si chiamano quei belin di bastonetti che servono per tenere aperte le ante a ribalta delle persiane? Manco io.
I miei ospiti cinesi, non comprendendo il funzionamento di tali sofisticatissimi dispositivi, hanno chiuso le ribalte senza prima disinnescarli, finendo per piegarli a metà; operazione che non ho provato ad emulare, ma che immagino abbia richiesto una discreta forza e anche una buona dose di ostinata idiozia.
I miei ospiti coreani, a cui avevo scritto più volte nei giorni scorsi senza come al solito ricevere risposta, alle otto del mattino mi fanno sapere che sarebbero arrivati a breve. Ho giusto il tempo per lavarmi la faccia nel bidet, mettermi un paio di braghe e andare a fare colazione perché oh, la colazione prima di tutto. La colazione fuori è un vizio facile da prendere, quando abiti in centro.
Appena uscita dal portone, un cordiale ed elegante signore mi dà il buongiorno con un “che schifo” secco nel muso, che onestamente non mi sento di contestare, ma che credo sarebbe suonato più autorevole se quel gentiluomo si fosse prima premurato di controllare che la patta dei suoi pantaloni fosse chiusa.
Le mie ospiti argentine
Le mie ospiti argentine dicono che girare l’Italia è faticoso e mangiare fuori costa un puttanaio, quindi hanno prenotato un paio di giorni da me, che c’è un bel pavimento vintage molto fotogenico, nonché una spettacolare vista su ben due pizzerie.
La loro cosa prefe è passare i pomeriggi in cucina a telefonare a casa, parlando delle Cinco Terras che non vedranno mai; ma tanto per gasare i parenti argentini basta aver visto qualche post su Instagram e sfogliato un paio di depliant con foto di uva e case colorate.
Tengono le preziosità in dei marsupi tatticissimi nascosti sotto ai magliettoni della salute, e quando chiedo loro i documenti mi dicono “wait” e si vanno a nascondere di là, rumegandosi nelle vesti.
Quando ci incrociamo le saluto in varie lingue ma non rispondono mai, e io comincio a sospettare di essere come Bruce Willis nel Sesto Senso.
I miei ospiti guatemaltechi
I miei ospiti guatemaltechi sono padre e figlio e arrivano trascinando un borsone a ruote che contiene le loro due bici. Quando vedono la mia parcheggiata in salotto mi chiedono di chi sia, perché giustamente a me non mi danno due lire. Per riscattarmi, alla domanda su quale sia il mezzo migliore per visitare le Cinque Terre, rispondo “raga, avete voluto la bicicletta, adè pedalate”. Loro si gasano, si danno un cinque altissimo e poi fanno quella roba di picchiarsi i petti l’uno contro l’altro, come i maschi scemi nei film americani quando tipo sono sbronzi, parlano di figa o segnano un touch down. Vorrei stare tutto il giorno con loro a girare in bici, darci i cinquoni, parlare di sport idioti e di donne che non avremo mai, bere le birre e fare le gare di rutti.
Ma il vero motivo per cui ho scritto tutto ciò è che non avevo mai avuto ospiti guatemaltechi e non avevo mai usato la parola “guatemalteca”, che è una parola bellissima che mi fa venire fame.
Le mie ospiti taiwanesi
Le mie ospiti taiwanesi hanno prenotato mesi fa dicendo che sarebbero arrivate alle dieci di sera. Le contatto un paio di giorni prima per avere conferma dell’orario, e non ricevendo mai risposta penso “sticazzi, arriveranno alle dieci di sera”.
Mi scrivono alle quattro e mezza per dirmi che sarebbero arrivate alle sei e io, che nel frattempo sono affanculo in bicicletta, mi scapicollo per rientrare in tempo per docciarmi e riceverle con un outfit un minimo più consono. Alle cinque e mezza mi informano che sono ancora a Pisa e non saranno a Spezia prima delle otto. Le odio già, e mentre rispondo a monosillabi come una fidanzata stizzita, comincio a pensare alla pessima recensione che scriverò su Airbnb.
Alle otto scendo a recuperarle in piazza perché si sono smarrite: le riconosco dalle valigie enormi e dal tipico guardarsi intorno a vanvera, malgrado abbiano numero civico e foto con tanto di frecce che indicano palazzo e portone. Mi avvicino chiamandole con degli “hey”, perché con la pronuncia dei nomi taiwanesi non è che me la cavi benissimo. Quando si accorgono della mia presenza alle loro spalle, si voltano e porca puttana sono bellissime: due sorrisi da restarci secchi, i lunghi capelli scuri mossi da una coreografia impeccabile, al rallentatore, come nello spot di uno shampoo. E all’improvviso ciao odio, ciao disappunto, ciao recensioni di merda, ciao meritocrazia, ciao ciao dignità.