Stamattina mi sono svegliata con una gran voglia di morire, che ha fatto presto a diventare terrore di morire quando, grattandomi la testa, ci ho trovato un bozzo. Tutt’ora ignoro se sia un brufolo, una legnata presa nella notte in circostanze misteriose, o un bruttissimo male; nel dubbio ho deciso di non toccarmi più la testa fino al 2020. Perché fanti, quando dicono di stare attentissimi a quello che si desidera, non è proprio una cazzata.
Per sfuggire a questo dicotomico senso di disagio, aggravato dall’invadenza sonora della pessima playlist musicale selezionata dall’assessore al Natale, sono andata a farmi un giro. Un giro debosciato e senza fantasia che mi ha portato a Fiumaretta.
A volte i luoghi sembrano chiamarti: per farti ricordare qualcosa, per fartici fare pace, o perché, come tutti, hanno bisogno di essere guardati.
Fiumaretta, in estate, dal punto di vista balneare è una meta abbastanza sfigata, se sei un local. Però se ci vai come i miei alle 8 del mattino, trovi parcheggio e la vita ti sorride. E poi ricordo che c’era un sacco di spazio per scavare le piste delle biglie col culo, quando io e mio fratello eravamo bimbetti e ce ne strasbattevamo del paesaggio e della limpidezza del mare, che avremmo fatto il bagno anche nelle pozzanghere.
Invece d’inverno quei posti lì, come anche Marinella e tutte le spiagge della Versilia, hanno il loro perché. Un perché fatto di desolazione, abbandono e degrado: la natura che, finalmente lasciata in pace, si sbraga e si lecca le ferite.
Il mare di oggi era un mare decisamente sbragato. Sporco, maleodorante e chiassoso. Ed è curiosa la sensazione di pace e meraviglia che un elemento così disordinato e carico di inquietudine è in grado di trasmettere.
Duke

Oggi mentre andavo in bici verso il Vignale, mi sono imbattuta in questo scemottone di cane, che poi ho scoperto chiamarsi Duke. Duke si era allontanato dal suo padrone mentre erano nel bosco e stazionava su via Vecchiora con la faccia di uno che pensa: “eccolo lì, mi son perso, e adè?”.
Ho provato ad avvicinarlo, anche perché stava pericolosamente in mezzo alla strada, ma non era molto propenso a fare nuove conoscenze. Come dargli torto, del resto.
Mi sono guardata intorno e ho chiesto alle persone nelle vicinanze se lo conoscessero: di quattro che ho fermato, altrettanti mi hanno risposto di no e sono tornati a battersene il belino. Un tizio da un’auto in corsa mi ha anche gridato che i cani vanno tenuti al guinzaglio; il fatto che fossi in bici, vestita da ninja, col casco e tutto, non gli ha impedito di pensare che fosse il mio cane.
Non sapendo che altro fare, ho scattato un paio di foto a Duke da postare su Facebook per poi proseguire il mio giro e bona, ma appena risalita in sella mi sono sentita una merda e ho pensato che se lo avessero messo sotto sarebbe stata colpa mia, che non ero meglio di quelli che avevo fermato, che me ne stavo battendo il belino. Perciò ho posato di nuovo la bici e ho riprovato a farlo avvicinare: mi ha fatto il dito medio, ma dopo qualche tentativo sono riuscita a fotografargli malamente la medaglietta su cui era scritto il nome e, dall’altro lato, un numero di telefono. Nonostante la foto sfocata e con l’ultima cifra visibile soltanto a metà, ho azzeccato il numero al primo colpo e ho rintracciato il padrone del cane. Mentre ero al telefono con lui, è arrivato il cognato, che era già stato precedentemente allertato; ha recuperato Duke e fine della storia.
La morale è che molto probabilmente il cane si sarebbe salvato anche se me ne fossi battuta il belino; io, invece, avrei perso l’ennesima occasione per fare un pochino meno peggio di come troppo spesso sono portata a fare dalla pigrizia, dalle paure, da quel senso di inettitudine in cui a volte mi piace tanto sguazzare.
La bottega dei cinesi
Stamattina mi si è rotta la cerniera del giubbotto, che è un fatto comodo quando sei fuori in motorino e la temperatura è quella tipicamente mite di metà dicembre che fa chiedere ai passanti se nevicherà o meno.
A dire il vero, qualche piccola avvisaglia me l’aveva data, quella fottuta cerniera: solo nell’ultima settimana sono rimasta intrappolata nella giacca almeno quattro volte, e in ogni occasione è dovuto intervenire qualcuno per liberarmi. Purtroppo stavolta ero da sola, e dopo vari tentativi di ripristino falliti, non riuscendo neanche a sfilarmela dalla testa, mi sono vista passare tutta la vita davanti: non la vita passata, ma quella futura in cui avrei forzatamente indossato quello stramaledetto giubbotto in ogni stramaledetta e improbabile situazione.
Dunque, in preda a un mix potentissimo di panico, claustrofobia e imbarazzo, ho cioccato e ho spaccato tutto. E dove vai quando spacchi tutto? Dai cinesi.
La bottega dei cinesi di Via Napoli sembra casa mia il giorno dopo averla messa in ordine: vestiti ammassati a caso in ogni angolo, sacchetti per terra, scontrini e cartacce, mezzo metro quadrato calpestabile. Su una seggiolina sfigatissima, fra un sacco e un mucchio di roba, un ometto cuce meticolosamente cose piccolissime, senza mai alzare lo sguardo o emettere un suono, né, credo, respirare.
La signora ride in cinese quando le mostro la cerniera spezzata, poi fruga in un bidonaccio e ne trova una vagamente simile. Mentre opera, dice cose in cinese, che non ricevono risposta. Chissà se parla col collega, troppo concentrato per considerarla, o fra sé e sé, come si fa a volte quando si è impegnati in lavori tediosi. O magari mi sta sbeffeggiando, giusto per il gusto di farlo con la consapevolezza di essere insgamabile. Ma alla fine oh, per cinque eulo ci sta.
I tramonti
I tramonti sono una di quelle cose che piacciono a tutti: scontati, puntuali, ma mai uguali.
Avevo una ragazza, quand’ero ragazza: occhi celesti, capelli ramati, labbra rossissime, il viso un po’ pallido con le guance rosate: sembrava un tramonto. Non un tramonto in città, fra i palazzi, che rimbalza sulle finestre e negli specchietti delle auto in coda ai semafori; un tramonto che cade nel mare, dall’alto, di quelli che te li devi guadagnare.
A volte ho paura di essere una di quelle persone che si crogiolano nel passato, perennemente malinconiche, cronicamente nostalgiche. Eppure, del mio passato, mi mancano più le cose che non ho mai fatto di quelle che, spesso a malapena, ricordo. Ma, forse, è proprio questo il punto.
A Lerici, al tramonto, siamo tutti in fila coi telefoni puntati verso lo stesso orizzonte, con la stessa inquadratura e in faccia lo stesso stupore un po’ sciocco e banale.
Accanto a me, un uomo armato di macchina fotografica non riesce a trattenersi dal commentare ad alta voce, con accento inequivocabilmente toscano, che suona più o meno così: “bada he spettaholo”. Io sorrido, perché mi fa pensare a un tizio buffo che ho sentito alla radio; lui lo coglie come un segnale di via: mi racconta che è di Firenze (oh, ma pensa) e mi elenca i millemila motivi per cui adora la sua città, ma ogni volta che viene qui a trovare la sua compagna non vorrebbe mai andare via. Dice che lei va raramente da lui, perché per quanto sia bella Firenze, dopo un po’, lontano dal mare, si sente soffocare. E io, pur sforzandomi di tenere a bada il mio sfacciato campanilismo, non posso che dichiararmi d’accordo.

La Maìna
Vado in bici, ma non mi definirei ciclista.
Ho un nome che ricorda il mare e che non so pronunciare correttamente.
C’è mancato pochissimo che non nascessi negli anni ottanta.
Il posto dietro al faro
Non so se sia un effetto comune o una semplice coincidenza, ma non ho mai amato tanto la mia città e la mia terra come da quando ho iniziato ad andare in bicicletta. Come quando ti innamori di qualcuno che conosci da sempre, e all’improvviso i suoi occhi sono più belli, il suo sorriso ti stordisce e ogni volta che lo guardi noti qualcosa di nuovo che ti stupisce e ti fa chiedere da quale deficit visivo fossi stato affetto per tutto quel tempo, per non essertene accorto prima.
Sarà il senso di impresa e di conquista che rende tutto più speciale. Sarà che diventando grandi si impara a dare le cose un po’ meno per scontate. Sarà che a volte un paesaggio è capace di abbracciarti, proteggerti e rasserenarti più di quanto qualsiasi persona non sia in grado di fare.
Pedalo per le vie del centro dribblando i passanti; supero le trattorie, le pizzerie, le birrerie, le kebabberie, le paninerie, le gelaterie, e mi dirigo verso il molo.
Al molo, il posto a sedere più ambito è dietro al faro: un blando riparo dalla vista e dai chiacchiericci della gente, abbastanza vicino al mare da poterci mettere i piedi dentro, se se ne avvertisse l’urgenza o se per qualche motivo si tenesse particolarmente poco alla propria salute. Il mare del porto è un mare denso, puzzolente e poco invitante, ma è pur sempre mare: sedativo e analgesico mare.
Trovare libero il posto dietro al faro non è facilissimo: bisogna contenderselo coi pescatori, con le coppie che limonano duro, coi bambini e i loro nonni, con le signore che fanno l’uncinetto, con gli scacchisti dall’accento est-europeo, coi malinconici, coi malconci.
Purtroppo a volte riuscire ad aggiudicarsi la postazione d’onore non è garanzia di tranquillità: ad esempio può capitare che un signore dall’aria inquieta e indecisa, dopo aver vagliato le varie opzioni possibili, decida di sedersi poco distante da te, per poi sguainare un tagliaunghie e prodursi in un’accurata e sonora pedicure. Ma è, appunto, soltanto un esempio.