Oggi a Tivegna un elegante quanto simpaticissimo ciclista in tutina arlecchino mi ha chiesto, col tono e l’espressione di chi sta facendo una domanda retorica, se la mia bici fosse a pedalata assistita, e quando gli ho detto che “deh, frè, per chi m’hai presa?” ha fatto una smorfia incredula perché proprio non gli tornava che fossi arrivata fin lì con le mie gamboccione, tra l’altro manco fossimo sul Mortirolo.
Ora: ok che nonostante io pedali un bel po’ c’ho delle medie ridicole, motivo per cui mi è stato recentemente suggerito di appendere la bicicletta al chiodo, però, amici ciclisti, m’avete stracagato la minchia. E poi io i chiodi non li so piantare. Anzi, se volete fare una cosa utile che vi faccia sentire dei super maschi, venite a darmi una mano col quadro che mi è stato regalato per il mio compleanno, che è da settembre che sta lì ad aspettare di essere appeso.
Comunque non è di questo che volevo parlare, ma di tutt’altra faccenda su cui mi arrovello da un po’.
C’avete presente quando nei film o nelle serie tv ci sono due che parlano e a un certo punto uno dice qualcosa di profondo e un po’ triste alludendo a se stesso e a una qualche merda che gli è piovuta addosso di recente, e l’altro ha un’improvvisa folgorazione che lo fa scappare via come un razzo dicendo “devo andare”, mollando lì il tizio senza salutarlo, dargli spiegazioni, né tantomeno fregarsene qualche cazzo di come stia, perché ora che ogni cosa è illuminata c’ha da correre forte a rimediare alle sue stronzate in modo da poter vivere felice e contento foreva and eva? No, dico: vi è mai capitato? Perché io sto ancora rimuginando su conversazioni avute tipo nel duemilauno, chiedendomi se forse, se anch’io avessi detto così anziché cosà, se avessi fatto anziché non fare, se non avessi fatto anziché fare, allora magari potrebbe essere che boh, non lo so mica, alla fine non è detto, meglio pensarci bene che poi, se no, chissà.