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Va tutto bene

Oggi a Tivegna un elegante quanto simpaticissimo ciclista in tutina arlecchino mi ha chiesto, col tono e l’espressione di chi sta facendo una domanda retorica, se la mia bici fosse a pedalata assistita, e quando gli ho detto che “deh, frè, per chi m’hai presa?” ha fatto una smorfia incredula perché proprio non gli tornava che fossi arrivata fin lì con le mie gamboccione, tra l’altro manco fossimo sul Mortirolo.
Ora: ok che nonostante io pedali un bel po’ c’ho delle medie ridicole, motivo per cui mi è stato recentemente suggerito di appendere la bicicletta al chiodo, però, amici ciclisti, m’avete stracagato la minchia. E poi io i chiodi non li so piantare. Anzi, se volete fare una cosa utile che vi faccia sentire dei super maschi, venite a darmi una mano col quadro che mi è stato regalato per il mio compleanno, che è da settembre che sta lì ad aspettare di essere appeso.

Comunque non è di questo che volevo parlare, ma di tutt’altra faccenda su cui mi arrovello da un po’.
C’avete presente quando nei film o nelle serie tv ci sono due che parlano e a un certo punto uno dice qualcosa di profondo e un po’ triste alludendo a se stesso e a una qualche merda che gli è piovuta addosso di recente, e l’altro ha un’improvvisa folgorazione che lo fa scappare via come un razzo dicendo “devo andare”, mollando lì il tizio senza salutarlo, dargli spiegazioni, né tantomeno fregarsene qualche cazzo di come stia, perché ora che ogni cosa è illuminata c’ha da correre forte a rimediare alle sue stronzate in modo da poter vivere felice e contento foreva and eva? No, dico: vi è mai capitato? Perché io sto ancora rimuginando su conversazioni avute tipo nel duemilauno, chiedendomi se forse, se anch’io avessi detto così anziché cosà, se avessi fatto anziché non fare, se non avessi fatto anziché fare, allora magari potrebbe essere che boh, non lo so mica, alla fine non è detto, meglio pensarci bene che poi, se no, chissà.

Underachievers, please try harder

Se sei un local, le Cinque Terre da maggio a ottobre te le puoi bello che scordare. A meno che tu non ci viva. Allora forse hai imparato a schivare la transumanza, hai un tuo scoglio segreto, e soprattutto non devi salire a bordo di un carro bestiame per arrivarci.
Per tutti gli altri, sono ormai una meta esclusivamente invernale.
Oggi era la giornata perfetta: sveglia presto causa sete infernale, diversi pasti da smaltire e colpe da espiare, solone, cielone bluone.
Da bambina il cielone bluone era il mio colore preferito. Lo è ancora, ma non ho capito a quale codice pantone corrisponda esattamente, perciò se me lo chiedessero dovrei rispondere che il mio colore preferito è “c’hai presente quando il cielo è serenissimo, in inverno o anche in autunno, senza nemmeno una nuvola, senza foschia, e sono tipo fra le 11 e le 15, e i contorni delle cose sono nettissimi, e l’orizzonte non finisce mai?” Per fortuna non è una domanda che ti fanno spesso, a quarant’anni.
Per andare alle Cinque Terre, di solito, scelgo la strada meno bella ma più facile, ovvero quella da Pignone. Che però è un tedio, soprattutto in questa fottutissima stagione che vi avverto, se non finisce almeno almeno entro due mesi faccio un casino.
Oggi me la sono sentita e sono passata da Volastra. Quando non le fai mai, le strade, tendi a scordarti il perché. Cioè, lo so che non passo mai da lì perché è una salita che ti prende a schiaffoni, ma non ricordavo quanto forti. E se non li prendi mai, gli schiaffoni, non è che ci sei abituatissimo.
Ma bòna, me la prendo comoda, mi faccio due discorsi a voce alta, mi stramaledico, mi incanto a guardare il panorama, e bene o male arrivo viva al bivio per Monterosso.
Scendo o non scendo? Tornare su è una bella botta, non lo faccio mai perché bla bla bla, ma checcazzo, underachiever che non sei altro, try harder.
Scendo.

La musica dei Monêtre, dalla tasca posteriore della giacca, mi accompagna lungo una risalita altrimenti troppo silenziosa; lenta, controllata, concentrata per mantenere il battito basso, per non andare in affanno. Per mantenere la calma, per non andare in paranoia.
Finché non vengo raggiunta da due tizi in e-bike, due ragazzotti sulla settantina, che mi offrono una spinta, che provo a rifiutare senza successo: il loro “perché devi fare fatica?” mi spiazza, vorrei rispondere che deh, e alora ci venivo col Liberty, ma fare sempre l’antipaticona è stancante, soprattutto se stai pedalando su una pendenza dell’11%. Quindi mi lascio portare fino al bivio per la strada panoramica, facendo in realtà il triplo della fatica, perché la spinta non è tale da compensare l’aumento di ritmo, ma tengo comunque duro perché tomboys don’t cry.
La conversazione coi miei nuovi amichetti non è particolarmente avvincente, e la loro tendenza al mansplaining mi irrita un po’: mi danno consigli sulla posizione in sella, mi comunicano l’altitudine, i km mancanti, mi insegnano qual è Corniglia e quale Manarola, mi dicono di mettermi i guanti prima di iniziare la discesa, mi fanno strada pure se non la sanno perché grazie al cazzo, sono di Reggio Emilia.
Ci spariamo un selfone vista mare, una bella foto di merda in cui la più vecchia sembro io.
È tutto così grottesco che alla fine è divertente. E poi, tutto sommato, se non mi avessero costretta ad accelerare il passo, probabilmente sarei tornata a casa con le tenebre.
Invece mi becco un tramonto coi controcazzi, di quelli col sole che va a finire secco nel mare, coi tempi e i colori perfetti; di quelli che fanno fermare le coppie a bordo strada a darsi i baci, a farsi le foto, a dirsi le cose d’amore.
Che mi fanno pensare che forse la dovrei smettere con ‘sta cosa dei tramonti, magari domani provare con l’alba. È che è un casino svegliarsi presto, dopo una boccia di vino rosso.