Che ne sanno i normovedenti
delle ombre che paiono serpenti
Delle rocce che non sono massi
ma gatti a strisce e grassi
Dei “guarda, la luna piena!”
“E dai, di nuovo? È il Burger King”
Dei saluti negati
o dispensati a caso
a perfetti sconosciuti.
Che ne sanno i normovedenti
delle ombre che paiono serpenti
Delle rocce che non sono massi
ma gatti a strisce e grassi
Dei “guarda, la luna piena!”
“E dai, di nuovo? È il Burger King”
Dei saluti negati
o dispensati a caso
a perfetti sconosciuti.
– Framura –
C’ho in testa una canzone.
La canticchio, ribadisco il ritornello, in silenzio, sotto la mascherina, nella mia testa, sparo acuti che ciao.
– Bonassola –
C’ho in testa una canzone, e mica ci faccio caso a quale.
– Levanto –
Merda.
C’ho in testa una canzone e non vorrei ma non c’è verso. Non la copre il rumore del treno, né la musica da discoteca proveniente dal vagone accanto, né le chiacchiere dell’uomo borioso che va a caccia di non so che cazzo di marmi non so dove cazzo,
– Monterosso –
della tizia che vuole andare ad Alassio fortissimo, tanto da ripeterlo al fidanzato decine di volte, che alla fine ci viene fuori un’altra canzone, che però non copre la canzone di prima: “voglio andare ad Alassio – ho trovato un marmo che bla bla bla nel fondo di un fiume – voglio andare ad Alassio – e bla bla bla – voglio andare Alassio”, e sotto sta musica che tunz tunz tunz, ma che poi che minchia c’è ad Alassio?
– Vernazza –
C’ho in testa una canzone e ti ricordi quella volta che
– Corniglia –
era il mio compleanno, eravamo qui, nessuno voleva starci ma era il mio compleanno e
– Manarola –
Possiamo scendere qui e ubriacarci tantissimo?
– Riomaggiore –
Possiamo scendere qui come quando stavo malissimo e ho detto “Dio ti prego dammi un segno qualsiasi” e ho visto quella tipa là che mi ha fatto dire “oh, Dio, certo che ci sai fare quando ti ci metti eh”?
– Spezia –
C’ho in testa una canzone, e non la coprono le birre, né le ore che passano, né il tramonto, né la lava via la doccia, né me la scordo col sonno, sta canzone maledettissima, che se potessi gliela farei cantare altre diecimila volte, nel mio letto, blu come la tristezza.
Io li capisco quelli che non vogliono più vivere. È una cazzo di fatica, vivere.
È come se ti dicessero: la vedi quella montagna là? Quella altissima e ripidissima che per arrivarci in cima ci sono duemila sentieri sbranati dai rovi, e scalinate di massi rotti, che se non c’hai un falcino, una bussola e una torcia ci sta che ti perdi e non ti trovano più manco con l’elisoccorso? Vai, mettiti sto par de zavatte e incamminati.
Però poi da là sopra c’è una vista, ma una vista che porca puttana eh.
Eh sì, ho capì, però è anche ‘n atimo che guardi giù e ti sfracelli.
Io li capisco quelli che rifuggono l’amore.
L’amore è una roba che se non te n’avessero mai parlato penseresti di averci un brutto male, tipo una grave cardiopatia, un tumore allo stomaco, un disturbo neurologico, una seria insufficienza respiratoria.
Verrebbe da dire che chi cazzo te lo fa fare, un po’ come guardare i film di paura: ma perché devo andarmela a cercare, la sensazione di paura, che è una sensazione di merda?
Però è anche come andare al Muzzerone, che c’è una vista, ma una vista che porca puttana eh.
Eh sì, ho capì, però è anche ‘n atimo che guardi giù e ti sfracelli.
Ho dato il mio primo bacio nel 93.
Nel 93 c’avevo i baffi e mi chiamavano Buffalo Bill.
Nel quartiere spopolavano due fantetti: uno fighissimo, irraggiungibile, che andava con le baby strappone straniere, cioè tipo della Chiappa o di Piazza Brin, e l’altro piccoletto ma spigliato, sicuro e con la faccia furbetta da marachelle e un caschetto di capelli morbidissimi e lustrissimi: eravamo tutte pazze di lui, tanto da litigarcelo, letteralmente. Ma roba di botte, eh.
Tutte eravamo io, la ragazzina col nome calabrese che ora si fa chiamare col secondo nome un po’ meno calabrese – ma tanto è inutile perché glielo leggi in faccia che si chiama con quell’altro nome là – e un’altra ragazzina che era la più piccola di tutte, ma c’aveva una malizia che noi scoregione ce la sognavamo. E poi era bionda. Senza labbra, ma pur sempre bionda.
Secondo me la bionda senza labbra gli ha cioccato anche un po’ di susina, poi, più avanti. Di sicuro è stata la prima a limonarselo, il piccoletto.
A me, lui, ricordo che disse: “io mi ci metto anche con te, però beciamo”. E allora avevamo beciato. Sapeva di sigarette e cingomme alla menta.
È invecchiato malissimo, quel ragazzetto: brutto, bolso, mal vestito e mezzo scemo.
La tizia col nome calabrese, invece, c’ha due figli che sogna di veder giocare in serie A.
Il fighissimo irraggiungibile è pelato e non più fighissimo e credo che di figli ne abbia una caterva.
La bionda chissà.
A me piacciono le signorine.
Nel 93 non lo sapevo mica, che mi piacevano le signorine.
Per un periodo era comparsa nel quartiere una ragazza più grande, che passava molto tempo con noi; poi cominciò a girare la voce che fosse lesbica e smise di farsi vedere. O almeno, io non ricordo che fine fece. So solo che quando ci penso, ora, mi sento una grandissima merda per aver dato retta a chi aveva visto in lei un pericolo o un qualcosa di schifoso.
Quando ci penso, ora, mi chiedo se forse, in fondo, non lo sapessi già che mi piacevano le signorine. Perché le fobie, alla fine, è un po’ così che funzionano.
Spara, Jurij, spara
sui petti scoperti.
Sui letti, concerti;
sui soffitti, sconcerti.
Spera, Jurij, spera
che il mattino finisca,
che la memoria ingiallisca,
che il vino, rosso, guarisca.
Felicitazioni.
Decorticazioni.
Temporizzazioni.
Non sparare.
Non sparerò.