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Speciale

In psicoterapia la prima cosa che m’è toccato imparare è che non sono speciale. Te lo sbattono in faccia come una roba innocua che anzi, dovrebbe farti sentire meglio, meno solo, e invece ti devasta, ti destabilizza; ti costringe a ridimensionarti, a riposizionarti, ad accollarti la responsabilità di ciò che sei e di come la tua vita sia andata fino a quel momento. È come se ti stessero dicendo che c’hai un cancro, e che non è che ce l’hai perché abiti a sei chilometri dall’Enel, o per colpa dei cellulari, dell’olio di palma o di quella volta che te mae t’ha cotto il sugo in una padella di teflon rigata, ma perché hai fumato, bevuto e mangiato di merda ogni stramaledetto giorno dei tuoi ultimi vent’anni.
E te che t’eri abituato a pensarti troppo sensibile, troppo buono, troppo empatico, troppo intelligente, brillante, sottile, destinato alla solitudine dell’incomprensione per colpa di una maledizione, una sventura congenita sulla quale non avevi nessun potere, ti ritrovi perso, disorientato, spersonalizzato. Una merda. Uno scemo. Un disastro.

Bene!

Chiamo il medico e mi chiede “come va?” e io soffocando nella tosse gli rispondo “bene!” come quando te lo chiede un conoscente qualsiasi per strada e anche se è il momento peggiore della giornata peggiore del periodo peggiore della tua vita non è che ti metti lì ad attaccargli un pippone su quanto in realtà vorresti solo metterti a piangere, e quindi te ne esci con quel “bene!” convintissimo, così lui sta sereno che te l’ha chiesto e te stai sereno che non l’hai ammorbato coi tuoi cazzi e state tutti sereni battendovene reciprocamente il belino di come stiate davvero.
O tipo il “come va?” che rivolgo d’istinto alla psicologa ogni maledettissima volta che mi siedo su quella poltrona, anche se lo so che risponderà con un sorriso che non vuol dire un bel niente perché non è che siamo lì a parlare delle sue faccende, ma penso che sarebbe bellissimo se una volta mi spiazzasse e attaccasse a raccontarmi di quanto ci detesti tutti e di come non veda l’ora di essere a casa a bersi un bicchiere di vino in pigiama e zavatte di pezza.

Scomparire

Ho sognato di buttarmi giù dal Muzzerone.
No, non l’ho sognato, l’ho immaginato. Seduta sul mio letto, sveglia e lucida, con gli occhi fissi sulla parete troppo alta e troppo bianca di fronte a me, l’ho visto accadere, l’ho vissuto.
Gridavo, ripetevo “no, no, no!”, ma erano grida silenziose perché non avevo voce, mi mancava il respiro, piangevo, guardavo sotto di me e vedevo il mare e le rocce avvicinarsi alla stessa velocità a cui il mio cuore batteva. Negli occhi, mi batteva. Nelle orecchie, nello stomaco, nelle mani e nelle vene, mentre mi dimenavo con gambe e braccia come se cercassi di tornare indietro aggrappandomi all’aria, scalandola.
È durato un’eternità, e ho capito che io non voglio morire.
A volte però vorrei scomparire. Come certi personaggi secondari di certi telefilm, che da un giorno all’altro non si vedono più, così, senza alcuna spiegazione, e nessuno si chiede che fine abbiano fatto, come se non fossero mai esistiti.
Ecco, io a volte vorrei non essere mai esistita. Non solo cessare di esistere nel presente, ma anche nel passato, nei ricordi e nella storia delle persone che conosco e ho conosciuto. Cancellata, non dimenticata. Essere dimenticati è orribile, significa non aver contato abbastanza, non aver dato o fatto abbastanza, nel bene o nel male essere stati superflui, sostituibili. Sparire no, la sparizione deresponsabilizza.
Sì, è la responsabilità che mi pesa. Di quello che sono, di quello che sono per gli altri, o che vorrei essere, o che loro vorrebbero che fossi, o che io credo che loro vorrebbero che fossi, di come vorrei mi ricordassero e di come invece temo di farmi ricordare.
La responsabilità di ciò che faccio, di come ogni azione inneschi una reazione a catena che lo so, lo so che è lo stesso meccanismo per cui succedono anche le cose belle e le cose buone, ma come si fa? Come si fa a sostenerla quella responsabilità lì, che c’ho l’ansia pure a pulire i cessi, perché potrei intasarli facendoci cadere dentro il cellulare, il dentifricio, i miei sogni, le mie speranze, le mie giornate?

Il peggiore dei coglioni

Mi accorgo della sua presenza alle mie spalle quando inizio ad arrancare su per Ameglia zigzagando con andatura svogliata, distratta e poco efficiente. Mi scuso per non averlo visto e avergli quasi tagliato la strada.
“No, figurati, saliamo insieme”
“Eh, non credo”
“No, no, io vengo da Portovenere, son più stanco di te”.
Chissà perché dà per scontato che io venga da meno lontano. Poi belin, te m’è ito Portivene, mica Sao Paulo do Brasil.
Quando qualche minuto dopo ci ripensa e mi chiede da dove sia partita io, vorrei farlo secco con una risposta a caso tipo “Pinerolo”. Poi vorrei dirgli che non è che sono stanca, è che oggi ne ghe n’ho vogia.
Non lo faccio, rispondo seria, ma non posso fare a meno di immaginare partire una garetta a chi ha la scusa migliore per fare schifo:
“Sì, ma io c’ho le mestruazioni”
“Io la prostatite”
“Io la cellulite”
“Eh, ma io ho giocato a calcetto giovedì”
“Io a ping pong venerdi”
“Ho bevuto uno spritz sabato “
“Io ho mangiato la pizza, mi pare domenica”.
“Sono andato a prostitute lunedì”
“Ah, eri tu?”
Proseguiamo la salita ruota a ruota, lui davanti io dietro, ma a un certo punto decido che mi sto annoiando e lo stacco, non senza prima fargli notare che “no, sai, con la monomarcia se perdo il ritmo…”
Lo rivedo in cima, mentre riempio la borraccia alla fontana. Gli faccio un cenno ma tira dritto: mi sa che mi odia.
A quel punto mi metto in testa che devo batterlo anche in discesa. Gli do pure un bel po’ di vantaggio, tanto se non lo ribecco non lo saprà mai. Invece lo ribecco e lo supero in curva come un teppista, mentre lui si sta facendo i cazzi suoi guardando il panorama e grattandosi le cosce. Ma deh, bèlo, vale lo stesso, le senti le ovazioni da bordo strada?
Mi rendo conto adesso che quel “non credo” che gli ho detto all’inizio, abituata ad essere sorpassata da uomini, donne, grandi e piccini, ora suona come un “ti faccio il culo, stronzetto”.
Sono il peggiore dei coglioni.

Tutto bello, costa poco

“Tutto bello, costa poco”
“No, grazie”. Accenno un sorriso ma alzo a malapena lo sguardo.
“Sei sola? Dov’è tuo fidanzato?”
Mi viene da ridere ma non rido, non dico nulla, indico il mare col mento.
“Surfista?” mi chiede.
“Sirena” rispondo.

Ferite

Ho una piccola ferita sulla pelle, da settimane, forse una puntura di zanzara.
Ogni giorno la cerco, la accarezzo, ne valuto dimensioni, rilievo e consistenza.
Poi cerco un ingresso, una scucitura, un punto debole.
Gratto i bordi, affondo l’unghia nella pelle, scalzo con cautela la crosta e la strappo senza fretta, cercando di non far uscire sangue.
Ma continuo a fallire, a sanguinare.
Aspetto che si riformi la crosta e poi torno a tormentarla, rischiando di infettare la ferita.
Le dimensioni della cicatrice aumentano, e io non trovo pace finché non l’ho vinta su quella crosta.
Dovrei aspettare che cada da sola, o che si riduca al punto da scomparire, ma è più forte di me: torno sempre lì.
Il mio pensiero, torna sempre lì.
Al mattino, appena sveglia.
Mentre guardo un film distrattamente.
Sdraiata al sole con gli occhi chiusi.
Le mie dita, tornano sempre lì.

Le bugie hanno le gambe accavallate

Le bugie hanno le gambe accavallate
Sulle panchine all’ombra, in estate
Sotto i tavoli dei bar

Sui divani, sui letti
Sui sedili delle auto in sosta.

Le bugie hanno le gambe accavallate
Sulle panchine al sole, in inverno
Sotto le scrivanie degli uffici

Sui gradini, sui muretti
Sulle sedie rotte nei giardini abbandonati.