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Ci baciavamo

Ci baciavamo sulle mura
a febbraio
C’avevamo il Sì
gli occhi celesti
le maglie a righe
e gli occhiali con le lenti blu

Ci baciavamo in auto
alle sei del mattino
C’avevamo sonno
l’odore di fumo
i pantaloni bruciati
e i capelli rasati

Ci baciavamo al cinema
di pomeriggio
C’avevamo la sete
la voglia
e una bottiglia di vino
nascosta nella giacca

Ci baciavamo in spiaggia
la notte
C’avevamo paura
la smania
i denti bianchissimi
e un sacco di domande

Ci baciavamo in bagno
nei locali la sera
C’avevamo un segreto
le cene saltate
i vestiti stropicciati
e le mani sudate

Ci baciavamo al tramonto
sul ciglio della strada
C’avevamo i sorrisi
gli sguardi dementi
le frasi d’amore
e il riflesso del mare

Ci baciavamo ai semafori
sul Liberty
C’avevamo una casa
dei gatti
un passato di merda
e nessuna speranza

Ci baciavamo nei sogni
ai tavolini dei bar
C’avevamo i cuori spezzati
le vite incerte
l’ansia del futuro
e troppa fantasia

Nuova Zelanda

Da qui non si vede niente
due pizzerie
un cortile interno lordo
un vicolo cieco
dove la gente va a pisciare

Niente colline
o monti innevati
niente vallate
né orizzonti sconfinati

Non si vede il cielo
e se cerchi il mare
non sai da che parte guardare

Ma se chiudo gli occhi
e se tu chiudi i tuoi
sulla nostra pelle il mare
il cielo, le colline
i monti e la neve

E se poi li aprissi
e anche tu li aprissi
noi, da qui
vedremmo pure la Nuova Zelanda

Vattene

Dal mio letto
dai miei giorni
dai miei sogni opachi

Dagli scogli al sole
dalle cime dei monti
dai sentieri coperti di fango

Dall’odore del caffè
dal sapore del vino
dal bianco troppo bianco di questo muro

Vattene

Otto e quarantasei

Butto un occhio all’orologio mentre lavo i piatti di tre giorni, che vorrei buttarli nel cavedio i piatti di tre giorni, ma poi mi toccherebbe cattarne di nuovi e pure da nuovi van lavati, e allora li metterei nel lavello e camperei altri tre giorni a pizze, stronzate e chinotti, senza uscire mai più da sta grana di dover lavare i piatti.
L’orologio in cucina fa le otto e quarantasei. A qualsiasi ora, da settimane. E io lo so benissimo che è fermo, non è che me lo scordo e allora lo guardo e ogni volta dico “ah, già, devo cambiare la pila”. Cambiare una pila non ci vuole niente, ne avrò duecento nel cassetto delle cose a caso, è un attimo, mica come lavare i piatti.
Eppure no, non la cambio. Perché quando alzo lo sguardo verso quell’orologio, consapevole del suo limite, della sua immobilità, di sapere l’ora non me ne frega uno stracazzo di niente. È di certezze che ho bisogno.

Stasera cinese?

E poi, capito, parcheggio la macchina e resto seduta lì, coi fari spenti, una mano sul volante e l’altra sulla chiave, e tutte le faccende a cui ho evitato di pensare durante il giorno mi tornano su come come quando mangi cinese e ordini ottocento cose perché costa tutto un cazzo, e ti ci sfondi anche se fa tutto cagare, ma ovviamente ti si pianta fra lo stomaco e la gola e passi una nottata di merda a stramaledire la Cina e tutti i cinesi, riproponendoti di non ordinare mai più il loro stupido cibo, ma poi dopo una settimana “stasera cinese?” e non sai dire di no.
Tutte insieme, tornano su. Dallo stomaco, attraverso la gola, diventano un grido.
Tutte insieme, porca puttana. Proiettate sul vetro dell’auto come un film angosciante e di cui non afferro del tutto la trama.