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La mattina

La mattina sa di zucchero a velo
su soffritti digeriti male

Sa di chiuso
di lenzuola umide
del vomito del gatto
sul tappeto della cucina.

La mattina sa di grasso di catena
su polpacci depilati in fretta

Sa di rabbia
di vento negli occhi
di colpi di grancassa
sotto la maglia sudata.

La mattina sa di fiori morti
nei bidoni dei cimiteri

Sa di incertezza
di lacrime secche
dei baci appena sveglie
che non ci diamo più.

L’Italia chiamò

Ma anche voi quando avete ricevuto il messaggio della Regione che vi ricordava la data imminente del vaccino vi siete sentiti come se foste stati convocati per andare a combattere al fronte?
E anche voi nel tragitto verso il centro vaccinale sentivate suonare l’Inno di Mameli e nella fattispecie quel discorso sul fatto di essere pronti alla morte che l’Italia chiamò?
E mentre eravate lì e vi facevano gentilmente accomodare per poi piantarvi con delicatezza l’ago nel braccio, anche a voi sono venute in mente varie scene di film e telefilm in cui alla gente vengono inoculati veleni di ogni sorta, tipo quella roba che Dexter iniettava nel collo delle sue vittime per farle addormentare e risvegliare legate e prossime a una fine bruttissima?
Anche voi avete cominciato ad accusare ogni possibile sintomo riconducibile alla morte dopo un secondo esatto dall’estrazione dell’ago dal vostro corpo, finendo per essere derisi dagli operatori?
Anche a voi hanno detto “se le fa male il braccio ci metta il ghiaccio, se poi dovesse sentirlo freddo è per il ghiaccio, non significa che sta morendo”?
Ma soprattutto, anche voi prima di andare vi siete cucinati il pranzo e più tardi, riscaldandolo, vi siete detti belin pensa se questa pasta di piselli con due zucchine e na carota fosse il mio ultimo pasto, che razza di ingiustizia che sarebbe?

Perfetto, grazie

Ho un pessimo rapporto coi parrucchieri: non mi piace la conversazione casuale con gli sconosciuti, ma anche i silenzi mi pesano, perché il mio silenzio mi fa sentire in difetto, come se dovessi soddisfare degli standard di simpatia e affabilità.
Anche limitando il dialogo allo stretto necessario, riscontro comunque problemi di comunicazione che onestamente non mi spiego. Eppure mi sembra di utilizzare un linguaggio semplice e comprensibile, seppure, a dire il vero, piuttosto tecnico.
Tipo oggi. Posto nuovo, mi fa sedere, mi lava, mi raccatto la testa dal lavabo con le mani perché ancora non li hanno inventati i lavabi da parrucchiere che non ti spezzano il collo, e mentre mi tampona con un asciugamano che sembra fatto di quella carta inutile dei tovagliolini dei bar, quelli che se ti asciughi con un foglio di domopak è uguale:
“Come glieli taglio?”
“Alora, intanto mi toglie sto papagnone qua dietro e per favore mi fa sparire sto effetto broccolone. Poi mi sistema la lanacchia sul collo e mi leva sta coda di rondine”.
Annuisce, ma il suo sguardo è perplesso e le sue mosse incerte.
“Come le sembra?”
“Perfetto, grazie”.
Rispondo sempre così, perché mi vergogno e un po’ mi dispiace dire che no, non mi piace per niente. E me lo porto a casa, quel taglio di merda.
Ogni maledetta volta.