Lo studio della mia nuova dottoressa si trova nel palazzo in cui abito.
Il mio collega di attesa è un signore sulla sessantina, visibilmente infastidito dalle notizie del radiogornale: è tutto un “bah”, “pfff”, “ahah, seh, certo”.
Si alza e si siede impazientemente per poi dirigersi verso la finestra che affaccia sul cavedio:
“Fa un po’ vedere cosa si vede da qua… Ah, che schifo. Poveracci quelli che ci abitano”.
“Quella lì è la finestra della mia cucina”.
“Ma dico, se n’è accorta anche lei che non hanno detto niente della manifestazione?”
“Sono abbastanza sicura che ne abbiano parlato”.
“Ah, bé, meglio così. Cosa stava dicendo?”
“Che quella è la mia finestra”.
“Ah, ecco la dottoressa. Lei ha appuntamento?”
“Sì, ora”.
“Allora entro un attimo io. Faccio presto”.
Non capisco la logica e rispondo con la sempreverde mossa del cavatappi.
Mentre passano i minuti senza che nessuno esca da quella maledetta porta, mi alzo e mi siedo impazientemente, poi mi dirigo verso la finestra: effettivamente, bella merda.
Esce.
“Mi scusi eh, grazie, arrivederci”.
Grazie un cazzo.
“Si figuri, ci mancherebbe, arrivederci”.
Marcella
Quand’eravamo fanti c’era sta signora nel quartiere, sta vecchia, che si chiamava Marcella.
La Marcella c’aveva i capelli grigi, un po’ unti, mi pare ricci, un taglio corto acconciato senza cura né criterio.
La stessa cura caratterizzava il suo outfit: pantofolone sfondate, calzettoni corti e spessi, vestitone a fioroni fin sotto le ginocchia, di quelli spenti e senza forma tipici di molte donne di una certa età, che mi chiedo sempre quand’è che succede di preciso che ti svegli e dici “adè vado da Fulmine e mi catto un vestitone a fioroni”. Me lo chiedo con seria preoccupazione, perché io ora sono nella fase “adè vado da Decathlon e mi catto ‘na giacchetta gialla” e ho paura che fra l’una e l’altra non ci sia spazio per molte altre fasi.
La Marcella c’aveva la faccia di una che nella vita non era mai stata felice. C’aveva la faccia di una che ogni passo le faceva male, e quel male la faceva incazzare.
Non c’aveva un buon odore, la Marcella. Mi sa che un buon motivo per lavarsi non lo trovava da un po’.
La Marcella se la chiamavi per nome ti rispondeva “merda”, sempre, secco, di botto, senza voltarsi né alzare lo sguardo da terra. Non so come lo avessimo scoperto né da quanto andasse avanti sta storia, ma da bravi pezzi di stronzetti che eravamo, ogni volta che la vedevamo, giù a chiamarla solo per sentirci rispondere “merda” e ridere come dei matti. E allora ancora. E “merda”. E giù a ridere. E ancora. Fino a che non spariva dentro al portone di casa.
E così ogni giorno:
“Marcella!”
“Merda.”
“Marcella!”
“Merda.”
“Marcella!”
“Merda.”
Avrebbe potuto durare in eterno, senza che mai quel “merda” acquisisse toni o sfumature differenti, che cambiasse intonazione, che esprimesse un qualcosa di diverso da quello che a noi non sembrava altro che un tic esilarante.
Era un po’ come schiacciare ripetutamente la lettera J del Grillo Parlante per sentirlo ripetere “ilòta”.
Ilòta mi fa ancora ridere.
La Marcella sarà bella che morta, a quest’ora. E io non lo so che problema avesse, che vita le fosse toccata, non lo so cosa cazzo l’aspettasse una volta sparita in quel portone.
Ma ci penso spesso. E mi dispiace.
Quando mi guardo e penso “eccolo lì, sono la Marcella”, mi dispiace.