Lo studio della mia nuova dottoressa si trova nel palazzo in cui abito.
Il mio collega di attesa è un signore sulla sessantina, visibilmente infastidito dalle notizie del radiogornale: è tutto un “bah”, “pfff”, “ahah, seh, certo”.
Si alza e si siede impazientemente per poi dirigersi verso la finestra che affaccia sul cavedio:
“Fa un po’ vedere cosa si vede da qua… Ah, che schifo. Poveracci quelli che ci abitano”.
“Quella lì è la finestra della mia cucina”.
“Ma dico, se n’è accorta anche lei che non hanno detto niente della manifestazione?”
“Sono abbastanza sicura che ne abbiano parlato”.
“Ah, bé, meglio così. Cosa stava dicendo?”
“Che quella è la mia finestra”.
“Ah, ecco la dottoressa. Lei ha appuntamento?”
“Sì, ora”.
“Allora entro un attimo io. Faccio presto”.
Non capisco la logica e rispondo con la sempreverde mossa del cavatappi.
Mentre passano i minuti senza che nessuno esca da quella maledetta porta, mi alzo e mi siedo impazientemente, poi mi dirigo verso la finestra: effettivamente, bella merda.
Esce.
“Mi scusi eh, grazie, arrivederci”.
Grazie un cazzo.
“Si figuri, ci mancherebbe, arrivederci”.