Siamo a tavola, io seduta di fronte a mia madre, come da formazione tipo. Alle sue spalle il piatto della frutta, sul quale sono rimaste soltanto due pere: due belle pere sode una a fianco all’altra, della stessa dimensione, quasi simmetriche.
L’argomento del momento potrebbe riguardare la storia dell’arte, la vita di qualche santo, come la nuova fidanzata del figlio di quel tizio che una volta abitava nel palazzo a fianco a quel fondo dove fino al 1997 c’era il giornalaio; ma a me non importa, sono rapita da quelle due pere.
“Certo che quelle pere sembrano proprio due pere” sento il bisogno di dire a voce alta, interrompendo bruscamente la conversazione in corso.
Madre, padre e fratello si zittiscono, mi guardano, si voltano verso il piatto della frutta.
“Eh, sono due pere…” Dice mia madre.
“Sì, ma sembrano proprio due belle pere”.
“Sono delle pere normali…”
Cinque minuti così.
Come il famoso aneddoto di me bambina con l’erre moscia che mi lamentavo perché le albicocche che mia mamma mi aveva dato erano “due”. E lei continuava a dirmi intanto di mangiare quelle, che se ne avessi voluta un’altra me l’avrebbe data.
“Sì, ma sono due!” E avanti così all’infinito.
La mia vita è una storia fatta di frutta e malintesi.
Che poi sapete che ci faccio io con la frutta? La compro, la metto lì, la lascio marcire e poi la butto via.