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Vorrei non fosse il mare

vorrei non fosse il mare a calmarmi
ma il lampeggiare ritmato
delle auto in doppia fila

vorrei non fossero le onde a darmi pace
ma il tintinnio orchestrale delle posate
nei ristoranti affollati del centro

vorrei non fosse quel moto tormentoso
ad alleviare le mie ansie
ma il solido cemento che calpesto

vorrei non fosse il sale il sapore che cerco
quando abbracciandomi le ginocchia
le assaggio con un bacio

Maturità

Al primo esame di maturità fui bocciata. Alle private, che non è da tutti.
Al secondo mi sedetti, lessi il titolo del tema, mi alzai e chiesi se potevo andarmene.
Mi dissero di sì, ma che avrebbe significato mandare a puttane tutto l’esame. Con altre parole, probabilmente, ma io ricordo solo il senso, e il senso era quello.
Forse provarono a convincermi a restare, forse no, fatto sta che me ne andai.
Uscita dall’edificio mi misi a piangere e camminai veloce verso la stazione di Brignole. Veloce per allontanarmi da lì, da quel posto, da quella scelta del cazzo. Veloce come la luce sperando che ciò mi rendesse invisibile.
Ero a Genova perché la scuola privata che frequentavo non era abilitata agli esami di maturità. E andava pure bene, perché l’anno precedente li feci a Cortina D’Ampezzo e quindi, insomma, sì: costrinsi i miei a un’evitabilissima vacanza a Cortina D’Ampezzo per oltretutto farmi bocciare.
Di Cortina D’Ampezzo ricordo il peso delle nubi, l’assenza del mare, gli sciatori con gli sci a rotelle.
Alla stazione di Brignole stringevo il telefonino che mi avevano dato i miei genitori perché potessi chiamarli: un Sony CMD Z1 con microfono estraibile. Stupendo. Erano ancora gli anni novanta, eh.
Stringevo questo telefono e piangevo, ed ero a Brignole su non so quale binario ad aspettare un treno che non volevo prendere, cercando il coraggio di fare una chiamata che non volevo fare.
Ma che alla fine feci.
“Mamma, sto venendo a casa”
“Così presto?”
“Già”.
Probabilmente non fu questo il dialogo esatto, ma ricordo solo il senso, e il senso era quello.

Stupida ottusa legalista

Arrivo in stazione non proprio di corsa, trentacinque minuti al mio treno.
Fuori fa meno due, dentro saran duecento.
In sala d’attesa, divieto di sedersi giustamente ignorato da tutti, tranne che da me. Stupida ottusa legalista.
Passeggio nel sottopassaggio: sottopasseggio.
Controllo sull’orologio i passi accumulati da quando sono sveglia: 401, compresi quelli dal letto al cesso.
Salgo le scale, scendo le scale, risalgo le scale; mi dico che con questo zaino pesantissimo dev’essere un buon allenamento. Mi ripropongo di informarmi sulla pratica degli squat con zaino in spalla, consapevole che una tale idiozia mi procurerebbe soltanto delle gran culate in terra e un tris di ernie.
La Freccia di Stocazzo è in ritardo di soli cinque minuti, quindi in orario. Cinque minuti seduta sulla panchina senza schienale del binario 2, malgrado l’adesivo rosso sbiadito di divieto. L’ottusa legalista si sente così colpevole che quando le si avvicinano gli sbirri si vede già in galera.
“Green Pass e documento, prego”
“Signorsì, signori”
“Grazie e buon viaggio signora”
“Ma prego, grazie a voi, volete vedere anche la patente? Tessera sanitaria? C’ho pure quella della rumenta, sono una cittadina modello, io. Sono stata brava? Ditemi che sono brava, nessuno mi dice mai che sono brava”.
Ma niente, sono già passati oltre.
Arriva il treno, controllo per la quindicesima volta carrozza e numero di posto sul biglietto.
“Carrozza 3” mi ripeto mentre il treno rallenta.
“Carrozza 3”.
Si ferma: carrozza 4. Mi dirigo verso la porta successiva, la capotreno fischia, mi volto, accelero il passo, inciampo sui miei stessi piedi, lo zaino enorme, mi vedo pancia a terra, gambe annodate, spianata sotto al mio bagaglio, la tizia che fischia, il treno che parte, un’alba rosa sulle vette innevate, gli sbirri al bar a bere caffè, meno uno gradi, lasciatemi qui.
Carrozza 5. Cogliona.
Torno indietro, imbarazzata nel seguire contromano il percorso indicato sul pavimento. Stupida ottusa legalista.
Carrozza 3. Ricontrollo il posto sul biglietto, scontro un passeggero, chiedo scusa, mi manda a cagare con accento lombardo, trovo il mio posto, ripeto due volte il numero a voce alta, poso lo zaino, saluto le due donne con cui condividerò la prossima ora di viaggio, nessuna risposta.
La madre – sono madre e figlia – ha le gambe accavallate per lungo sotto al tavolino e non accenna a spostarle per far posto alle mie, che rannicchio in un angolo.
Sta leggendo un libro sul Kindle; il carattere è impostato a una dimensione tale che conto otto righe per pagina e tre parole per riga. Cerco di immaginare il volume di un libro cartaceo per adulti con ventiquattro parole a pagina.
Fra una pagina e l’altra, impartisce lezioni alla figlia – giovane, vai a sapere quanto – su come trovare lavoro tramite i social.
“Scrivigli su Messenger”
“Non puoi scrivergli te?”
“Eh no, devi farlo tu. Ma prima cambia foto profilo. Mica puoi cercare lavoro in costume da bagno”.
Finalmente scendono e posso avviare i lavori di ripristino della circolazione negli arti inferiori.
La prossima tocca a me.
Sono pronta e insacchettata dieci minuti prima del tempo. Mi dirigo verso l’uscita, stavolta seguendo diligentemente il percorso suggerito, ma mi fermo davanti alla porta adibita alla salita. Ci penso un attimo, poi mi dico che ma sì, scenderò da lì, tanto ormai sono una delinquente.

Ho sognato che avevo un gatto

– Ho sognato che avevo un cane.
– Un cane?
– No, scusa, forse era un gatto. Ho sognato che avevo un gatto.
– Un gatto.
– Sì, un gatto. Ma perché fai quella faccia lì? Mica ho detto rinoceronte… Alpaca… Che ne so… Cefalopode. Se ti dicessi “ho sognato che avevo un cefalopode”, tanto tanto. Ma un gatto…
– Mh. E quindi sto gatto?
– Non mi ricordo. Lo portavo al parco.
– Allora era un cane.
– Ma perché, scusa, non ce lo posso portare un gatto al parco? Non hai visto quelli su Instagram che portano i gatti nei posti e gli fanno le foto fighe e diventano influencer della movida felina?
– Va bé, allora c’avevi sto gatto e lo portavi al parco.
– Sì. Ma poi scusa, era un sogno, eh. Te che sogni ti fai? Che ti svegli, mangi un toast, bevi un caffè, fai la cacca e corri al lavoro?
– Io non faccio sogni.
– E belin, adè.
– Ma no, davvero.
– Ma dai, è che non te li ricordi. Prova a pensarci, all’ultimo sogno che hai fatto.
– Boh, non saprei.
– Ma non è possibile, dai.
– Eh oh.
– Ma dormi, almeno?
– Sì, non meno di otto ore a notte.
– Sai che questo per me sarebbe un sogno bellissimo?
– Dormire otto ore a notte?
– Sì. Come fai? Non ce li hai i pensieri, le ansie, la testa piena delle cose successe durante il giorno, di quelle che avresti voluto che fossero andate diversamente, delle cose dette male e di quelle che avresti potuto dire, di tutto quello che dovrai fare il giorno dopo e come farlo? Non ti conti i battiti, i respiri, gli organi e le ossa? Non ti scappa la pipì anche se l’ultima volta che hai bevuto erano le due del pomeriggio? Non hai paura dei ladri, delle catastrofi, di una telefonata nel cuore della notte che ti dice che i tuoi genitori e tutti i tuoi amici sono morti?
– No.
– E se stanotte muoio?
– Cosa.
– No, dico: ci pensi se stanotte muoio e ti chiamano per dirtelo?
– Ma chi mi dovrebbe fare una chiamata del genere?
– Perché, non vorresti saperlo??
– Cosa cambierebbe se lo sapessi il mattino dopo?
– No, niente…
– Poi io il telefono lo spengo di notte.
– E se ti cercano?
– Ma chi.
– Boh… Tua madre?
– Mia madre non mi chiamerebbe mai di notte.
– Neanche se tuo padre avesse un infarto?
– No, aspetterebbe che fosse mattino.
– Ah. E tu non vorresti saperlo subito?
– Per fare cosa? Operarlo?
– Tu non sei normale.
– Però io dormo.
– Mh.

Le giornate di pioggia

Le giornate di pioggia
passate inosservate
senza bisogno di luce
di aria
di voce

– Sono calma
sono presente
mantengo il controllo –

Le giornate di luce
passate al coperto
senza bagnarsi di pioggia
di ansia
di bolgia

– Sono salda
sono cosciente
mantengo il distacco –

Le giornate di merda
passate a fatica
senza scordarsi di niente
di un cazzo
di niente

– Sono sorda
sono altrove
mantengo il silenzio –

Stamattina sono andata in bici dopo due mesi

Stamattina sono andata in bici dopo due mesi, e mentre mi vestivo ho avuto una sgradevole sorpresa, che poi non è stata affatto una sorpresa: i calzoncini faticavano a salire, la giacca a chiudersi, anche le scarpe sembravano essere diventate più strette.
Merda, due mesi e non mi entra più niente.
Ma poi perché dico che non mi entra, quando sono io a non entrarci? È un chiaro tentativo di deresponsabilizzazione: è colpa loro, mica mia. Bastardi.
Ah, come sono fan della deresponsabilizzazione.
Ma torniamo a noi. A me.
A me che oggi sono andata in bici dopo due mesi e non ero buona da un belin di niente, ma porca puttana quanto ne avevo bisogno.
Di sudare, di avere il fiatone, di sentire il cuore pompare. Perché sì: sono andata fino a Lérse, mezz’ora a passo nonno e c’avevo già il fiatone. Ma cosa volete, in questi due mesi il mio massimo sforzo ginnico è stato camminare sulle stampelle, sollevare le birette e lavarmi il dente su un pé solo. ‘Na vitaccia.
Il cuore, comunque, è una roba assurda. Che c’ha bisogno di battere forte per smettere di battere forte. Come se ne avessimo più di uno, ognuno con una funzione diversa, tipo i polpi. Un cuore per l’ansia, uno per l’amore, uno per restare vivi.
Ma chissà cosa dico, c’ho più vino che saliva in bocca.
Un ultimo bicchiere, uno soltanto.
L’ultimo bicchiere di vino bevuto tutto d’un fiato prima di andare a letto è come una testata secca contro al muro, data di proposito, col preciso intento di crollare sul colpo e non risvegliarsi prima di averlo smaltito tutto, quel vino, e prima che tutto, ma proprio tutto, vada molto più che benissimo.
Così, da solo, senza nessuno sforzo.
Allora io mi metto qui un attimo a riposare gli occhi, giusto un attimo, poi arìvo eh.

Vorrei ucciderti nel sonno

Vorrei ucciderti nel sonno

Tagliarti la gola
le arterie
la strada

Soffocarti con un calzino
con la maglietta dei CCCP
con le lenzuola stropicciate da un’altra

Ucciderti

Farti paura da morire
farti a pezzi tutti uguali
farti cadere male

Nel mio sonno
che non arriva
che non mi sveglia

Che mi lascia sola

Vattene

Dal mio letto
dai miei giorni
dai miei sogni opachi

Dagli scogli al sole
dalle cime dei monti
dai sentieri coperti di fango

Dall’odore del caffè
dal sapore del vino
dal bianco troppo bianco di questo muro

Vattene

Otto e quarantasei

Butto un occhio all’orologio mentre lavo i piatti di tre giorni, che vorrei buttarli nel cavedio i piatti di tre giorni, ma poi mi toccherebbe cattarne di nuovi e pure da nuovi van lavati, e allora li metterei nel lavello e camperei altri tre giorni a pizze, stronzate e chinotti, senza uscire mai più da sta grana di dover lavare i piatti.
L’orologio in cucina fa le otto e quarantasei. A qualsiasi ora, da settimane. E io lo so benissimo che è fermo, non è che me lo scordo e allora lo guardo e ogni volta dico “ah, già, devo cambiare la pila”. Cambiare una pila non ci vuole niente, ne avrò duecento nel cassetto delle cose a caso, è un attimo, mica come lavare i piatti.
Eppure no, non la cambio. Perché quando alzo lo sguardo verso quell’orologio, consapevole del suo limite, della sua immobilità, di sapere l’ora non me ne frega uno stracazzo di niente. È di certezze che ho bisogno.

Stasera cinese?

E poi, capito, parcheggio la macchina e resto seduta lì, coi fari spenti, una mano sul volante e l’altra sulla chiave, e tutte le faccende a cui ho evitato di pensare durante il giorno mi tornano su come come quando mangi cinese e ordini ottocento cose perché costa tutto un cazzo, e ti ci sfondi anche se fa tutto cagare, ma ovviamente ti si pianta fra lo stomaco e la gola e passi una nottata di merda a stramaledire la Cina e tutti i cinesi, riproponendoti di non ordinare mai più il loro stupido cibo, ma poi dopo una settimana “stasera cinese?” e non sai dire di no.
Tutte insieme, tornano su. Dallo stomaco, attraverso la gola, diventano un grido.
Tutte insieme, porca puttana. Proiettate sul vetro dell’auto come un film angosciante e di cui non afferro del tutto la trama.