Butto un occhio all’orologio mentre lavo i piatti di tre giorni, che vorrei buttarli nel cavedio i piatti di tre giorni, ma poi mi toccherebbe cattarne di nuovi e pure da nuovi van lavati, e allora li metterei nel lavello e camperei altri tre giorni a pizze, stronzate e chinotti, senza uscire mai più da sta grana di dover lavare i piatti.
L’orologio in cucina fa le otto e quarantasei. A qualsiasi ora, da settimane. E io lo so benissimo che è fermo, non è che me lo scordo e allora lo guardo e ogni volta dico “ah, già, devo cambiare la pila”. Cambiare una pila non ci vuole niente, ne avrò duecento nel cassetto delle cose a caso, è un attimo, mica come lavare i piatti.
Eppure no, non la cambio. Perché quando alzo lo sguardo verso quell’orologio, consapevole del suo limite, della sua immobilità, di sapere l’ora non me ne frega uno stracazzo di niente. È di certezze che ho bisogno.