Un paio di settimane fa, passeggiando nel bosco, ho notato questo ramo adagiato tra le foglie secche e mi è parso chiaro che fosse un mitra. L’ho raccolto, l’ho imbracciato e ho mimato una raffica di spari, poi mi sono ricordata di avere quarantuno anni, mi sono sentita idiota e l’ho gettato a terra, abbandonandolo lì dove l’avevo trovato.
Questo lunedì, correndo sullo stesso sentiero, ho poggiato malissimo un piede e ho preso una storta atomica a una caviglia: un rumore molto poco rassicurante e poi giù per terra come un sacco. Un male porco. Sono rimasta lì a lamentarmi per un tempo indefinito, come Peter in quella puntata dei Griffin in cui cade e si fa male a un ginocchio.
Poi mi sono di nuovo ricordata che maledizione ho quarantuno anni, e quindi mi sono detta che belin, dai, è una storta, datti un contegno. Ma dal momento che di stare in piedi non c’era verso, mi sono guardata intorno in cerca di un bastone della mia vecchiaia e dopo averne scartati due o tre, ho ritrovato lui: il mitra. E ho scoperto che non era un mitra, ma una stampella costruita su misura per me: l’altezza giusta, l’impugnatura posta alla distanza perfetta. Tanto provvidenziale quanto inquietante.
Mentre arrancavo verso la mia auto sorretta da quella gruccia di fortuna, mi sentivo come in uno di quei film il cui protagonista è un intrepido e scaltro eroe che braccato, disperso e ferito deve trovare la via della salvezza contando soltanto sulle proprie forze e il proprio ingegno.
Guidare con la caviglia destra rotta – ho scoperto – non è semplicissimo. Certo, avrei potuto lasciare l’auto al Parodi e chiamare l’aiuto da casa, ma il protagonista del film di cui sopra, maledetto lui, non l’avrebbe mai fatto.
Nella sala d’attesa del Pronto Soccorso di Spezia sembra di stare in un ambulatorio veterinario di quelli lerci, dove “tanto son bestie, le bestie son sporche”.
Aria maleodorante, sedie scrostate e arrugginite, porte cigolanti, tabelloni non funzionanti, tempi di attesa impronosticabili. Gente che è lì dal pomeriggio e ancora non sa di che morte morire. Una donna in sedia a rotelle, in stato di semi-incoscienza, viene rilasciata con addosso solo le calze e un camice trasparente; quando il suo accompagnatore chiede sbigottito dove siano i suoi vestiti, gli viene risposto che “eeehhh, a me me l’hanno data così”.
Finalmente mi chiamano per fare i raggi e penso dai, forse me la sfango prima del previsto.
Dopo i raggi mi rispediscono in sala d’attesa e passa un’ora e mezza prima che vengano ad informarmi che mi avrebbero portata in sala gessi. Sala gessi a me fa sempre ridere, perché penso a un italo-americano che si chiama Jessie Sala; però me lo tengo per me perché non riderebbe nessuno e mi sentirei di nuovo scema come quando giocavo col mitra nel bosco.
Da Jessie Sala mi ci porta un ragazzotto gentile con una cariola sgangherata che non c’ha manco gli appoggi per i piedi, e quindi devo tenerli per aria mentre attraversiamo i giardini dell’ospedale, che ogni volta mi chiedo chi stracacchio l’ha progettato sto ospedale idiota coi padiglioni buttati uno qua e uno là, che per andare da uno all’altro devi pure pigliarti del freddo.
L’infermiere Jessie Sala mi fa un’esaustiva lezione sull’anatomia del piede per aiutarmi a comprendere la mia situazione clinica, mentre con pacata meticolosità taglia i miei jeans lungo la cucitura. “Per evitare di buttarli”, dice; “tanto fanno cagare”, dico.
A casa ci arriviamo all’una di notte.
Prima di deciderci ad andare al Pronto Soccorso, rassegnandoci al fatto che la mia caviglia non potesse aspettare fino al giorno seguente, avevamo ordinato un quantitativo di cibo tale che nel sacchetto erano stati messi quattro biscotti della fortuna e quattro paia di bacchette, malgrado fossimo in due.
Ne ho ancora una parte in frigo, a fare i bighi.
Il mitra è nell’ingresso, vicino alla porta. Farà i bighi anche lui, ma è evidente che fosse destinato a venire a casa con me.
