– Ho mangiato il tuo budino.
– Il MIO budino?
– Sì, quello in frigo.
– Quale frigo?
– Il mio.
– Ma non ci vediamo da due anni, come fa ad esserci un MIO budino nel tuo frigo?
– Infatti era scaduto.
– Ah, ecco.
– Però era buono.
– Mh. E perché non l’hai mangiato prima?
– Non mi andava.
– Potevi buttarlo.
– Mi dispiaceva.
– Hai tenuto un budino scaduto in frigo per due anni perché ti dispiaceva buttarlo?
– Era tuo…
– E in due anni non ti è mai andato, ma stasera improvvisamente…
– Avevo voglia di dolce e non avevo nient’altro.
– Capito.
– E allora poi ti ho pensato.
– E mi hai scritto. Dopo due anni. Per dirmi del budino.
– Sì.
– Vuoi dirmi qualcos’altro?
– No.
– …
– Buonanotte.
– Ciao.
Manco in una pubblicità del Montenegro
Nella camera Vernazza soggiornano due tizie. Arrivano prima dell’orario del check-in e il boss mi fa sapere che troverò i loro bagagli in stanza quando andrò a pulirla.
Al mio arrivo individuo le loro valigie e le isolo dai resti del soggiorno precedente: asciugamani in terra, lenzuola aggrovigliate sul fondo del letto, bagnoschiuma semipieno abbandonato nella doccia. Tutto come da copione.
Sulla scrivania, fra lattine vuote, tazze sporche e cartacce di merendine, una confezione di shampoo rotta avvolta in una busta di plastica forse perché non perdesse, ma che perde lo stesso e che quindi poggia su un bel chiazzone vischioso. Certa che si tratti di un omaggio dei precedenti ospiti, lo butto senza pensarci mezza volta.
Sulla terrazza, gettati disordinatamente su tavolino e sedie, dei vestiti, fra cui una mutanda con salvaslip annesso. Memore del biglietto di qualche giorno prima in cui una coppia ci comunicava di averci lasciato in regalo una Nutella ciucciacchiata, uno stick di deodorante spalmato del loro sudore e altre cortesie di questo genere, penso ancora una volta a un’altrettanto generosa donazione, insacchetto tutto e metto da parte. Poi però mi viene il dubbio che le due tizie, contestualmente al deposito dei bagagli, abbiano approfittato per cambiarsi al volo, e abbiano ritenuto che il terrazzo fosse il posto più idoneo in cui abbandonare le proprie vesti. Dunque ripesco tutto, butto giusto il salvaslip, e rimetto “a posto”.
La sera, verso mezzanotte, il boss mi inoltra una serie di messaggi ricevuti dalle tizie, nei quali si lamentano perché non trovano il loro shampoo, che avevano lasciato sulla scrivania. Una serie di molti, molti messaggi nei quali specificano marca e nome dello shampoo e sottolineano il loro disappunto per questa mancanza, tanto che ho pensato si trattasse di un shampoo da un milione di dollari e l’ho cercato su Google: un prodotto stupidissimo da due euro al supermercato.
Al mattino seguente altri messaggi in cui reclamano sto belin di shampoo, e quindi via di corsa all’affittacamere per rimestare nella rumenta, che grazie a Iddio non avevo ancora buttato. La sostanza vischiosa che avvolge la busta contenente il preziosissimo fluido ha fatto da colla per ogni altra sporcizia contenuta nel sacco, e solo dopo un accurato lavaggio posso finalmente porre fine a questo increscioso malinteso. Busso alla loro porta e quando la tizia mi apre mi trova lì che reggo alto sopra la testa il loro fottutissimo shampoo come se fosse una fottutissima Coppa del fottutissimo Mondo. Glielo porgo, pronta a partire con una tiritera di scuse, ma lei mi liquida con uno sbrigativissimo “thanks” e conseguente chiusura di porta in the face.
Ok.
Speriamo non rivogliano anche il salvaslip.
La sensualità delle suore
C’è qualcosa di intrigante nelle suore che passeggiano al molo, con ritmo deciso, quasi sportivo: le scarpe da ginnastica nere serrate sulle caviglie, gli abiti incolori, le giacche ampie e informi e le gonne lunghe che lasciano scoperta soltanto una piccola porzione di polpaccio.
Il tentativo di nascondere le proprie forme, il proprio essere donne fatte come le donne, vanificato da un vento contrario che fa svolazzare i loro veli pesanti e pietosi e rende i vestiti avvolgenti, attillati sulle cosce e sul corpo.
Un vento contrario al pudore ostinato della Chiesa, ai suoi dogmi stantii, al suo ridicolo dress-code.
Ci incontravamo da Tiger
Ci incontravamo da Tiger, fingendo che fosse per caso.
– Che ti compri?
– Un dito medio di legno, uno spazzolino da denti che si piega in quattro e un biliardo per persone piccolissime. E tu?
– Corona da principessa, calzini coi cactus e questi cereali per la colazione.
– Credo sia pot-pourri.
– Sicura?
– No.
– Ma dimmi un po’… – Dicevamo quasi all’unisono dopo un silenzio lungo almeno un minuto.
Abbassavo la testa, tu la giravi da un lato.
– Stai bene – Ti dicevo guardandomi le scarpe.
– Anche tu – Mi dicevi cercando l’uscita con lo sguardo.
Poi ci salutavamo chiamandoci per cognome.
Succedeva ogni lunedì, fra le sedici e le sedici e quindici, da otto anni, nove mesi e diciassette giorni.
Che stronzata
Tra le cose che ricordo
ce n’è una che ho scordato:
quella volta in cui mi hai vista
vestita da soldato.
Che stronzata.
Ho comprato i crauti, un vasetto di vetro: si è rotto prima di arrivare a casa e ora tutta la spesa sa di crauti, la cucina sa di crauti, tutto il mondo sa di crauti, la camicia che indossavo – H&M bimbo, taglia 13/14 anni – sa di crauti.
A 13/14 anni mi piaceva solo fare i salti in bicicletta e prendere i muri a pallonate. E le patatine fritte. E le cingommone rosa che dopo un minuto diventavano cemento al gusto niente.
Non sapevo dove stare, a 13/14 anni, ma me ne fregava il giusto.
Ho fatto un sogno: ero a letto, non dormivo, guardavo fuori attraverso le fessure delle persiane.
Le luci dei bar chiusi, i lampeggianti blu delle ambulanze ferme, le sirene spente dei vigili degli alberi di Natale in fiamme, e mio padre che mi teneva la mano e mi diceva “lo so, siamo uguali, me e te”.
Che stronzata.
Bene!
Chiamo il medico e mi chiede “come va?” e io soffocando nella tosse gli rispondo “bene!” come quando te lo chiede un conoscente qualsiasi per strada e anche se è il momento peggiore della giornata peggiore del periodo peggiore della tua vita non è che ti metti lì ad attaccargli un pippone su quanto in realtà vorresti solo metterti a piangere, e quindi te ne esci con quel “bene!” convintissimo, così lui sta sereno che te l’ha chiesto e te stai sereno che non l’hai ammorbato coi tuoi cazzi e state tutti sereni battendovene reciprocamente il belino di come stiate davvero.
O tipo il “come va?” che rivolgo d’istinto alla psicologa ogni maledettissima volta che mi siedo su quella poltrona, anche se lo so che risponderà con un sorriso che non vuol dire un bel niente perché non è che siamo lì a parlare delle sue faccende, ma penso che sarebbe bellissimo se una volta mi spiazzasse e attaccasse a raccontarmi di quanto ci detesti tutti e di come non veda l’ora di essere a casa a bersi un bicchiere di vino in pigiama e zavatte di pezza.
Letargo
Ci siamo già così abituati a sta menata delle mascherine che ormai ci scordiamo di togliercele anche in casa, o quando ci sediamo al ristorante e ci dobbiamo ficcare il cibo in bocca. È diventata l’ennesima roba scomoda che però ci tocca usare, come il casco, la cintura, il reggiseno, le scarpe fighe ma dure come il masso.
Dicono le signore in centro, dagli spalti, che a spaventare non è tanto il covid, quanto il fatto di essere presi per razzisti, che ormai non si può più dire niente, che è quello che fa davvero paura alla gente. Non capisco il punto e la logica, ma sono contenta di tirare dritto verso casa.
Fa freddo, mi viene voglia di bestemmiare dal freddo che fa. Beati voi che vi piace sta merda, io me ne andrei in letargo fino ad aprile come una tartaruga. Ho detto letargo, non coma, stai calmo Dio eh. Che qua, non si sa come, quando ti provi a desiderare un qualcosa di bello, col cazzone, ma se ti scappa una roba tipo “vorrei morire”, tac che ci resti secco.
Che cosa incredibile e geniale, il letargo. Mi risolverebbe un sacco di problemi: disordini alimentari, meteoropatia, tendenze autodistruttive di vario tipo. Cioè, cazzo, è come un rehab. Un mega detox. Ma ve lo immaginate se la razza umana andasse in letargo quanti vantaggi ne avremmo noi e l’intero pianeta? Altro che quarantena: zero ripercussioni economiche perché deh, checcazzo ce ne frega, stiamo a dormire fino a primavera, poi ci si ripensa.
Letargo, Dio. Pensaci, frè.
Vespe
Quando una vespa mi gira intorno, vado nel panico e faccio tutto ciò che non si dovrebbe fare: balzo in piedi, mi sbraccio, mi dimeno, mi schiaffeggio cercando di scacciarla, ma rischiando di fatto di farla incazzare e farmi pungere davvero.
Lo so che dovrei soltanto stare ferma, rimanere calma, non fare assolutamente nulla, ma l’immobilità di fronte a un pericolo mi fa sentire esposta, in balia della volontà altrui, mentre l’azione mi dà l’illusione di avere il controllo della situazione.
Se di norma è così, cioè è preferibile agire anziché lasciarsi trascinare passivamente dagli eventi senza cercare in alcun modo di modificarli, in casi come questo è una strategia fallimentare: una volta sono stata punta in testa e sono rimasta rintronata fino al mattino seguente. Un’altra volta su un avambraccio e sembravo Popeye.
È buffo – e quando dico buffo intendo più ridicolo che ironico – quanto l’immobilismo, in generale, mi caratterizzi, e quanto mi sia difficile metterlo in pratica nelle sole situazioni in cui sarebbe opportuno farlo.
Così come il silenzio. Per quanto penso mi si possa definire una persona silenziosa, caratteristica di cui porto il peso fin da quando sono bambina (“non parli? ti ha mangiato la lingua il gatto?”), quando sono sopraffatta dalla paura, dall’ansia, dal panico di sbagliare, di non essere all’altezza di una situazione, di perdere qualcosa o qualcuno, rimanere in sacrosanto silenzio mi sembra la cosa più difficile e faticosa del mondo: finisco quasi sempre per mandare tutto in merda dicendo cose sbagliate, a cui cerco di rimediare dicendo cose ancora più sbagliate, quasi come se il mio vero scopo fosse provare quanto avessi ragione ad avere paura, ad averci l’ansia. Che non sono una pazza che fa di tutto per autosabotarsi perché sia mai di meritarsi una gioia nella vita, ma una saggia e lungimirante premonitrice di catastrofi a cui, cara mia, non la si fa.
Volevo solo rinnovare la carta d’identità
Nelle foto per la carta d’identità sembro una vecchia vedova affetta da carotenosi.
Lo faccio notare all’impiegato del Comune, che molto serio mi dice “come?”
“No, niente”.
“Ce l’ha la carta vecchia?”
“Sì, guardi, è tuta sbrindelà”
“Come?”
“No, niente”.
“Si vuole esprimere sulla donazione degli organi?”
“Sì”
“Ah, sì?”
“Eh, sì”
“Ma nel senso che li vuole donare?”
Pigia un tasto sulla tastiera del computer e vengo portata via all’istante da un’equipe medica, entrata chissà quando e chissà da dove.
“No, fanti, c’è stato un equivoco… Ma poi credetemi, non c’è niente di buono qua dentro”.
Mi risveglio nel bagno di un autogrill, con un sacco di cicatrici. Sullo specchio, una scritta fatta col mio stesso sangue mi informa che sono morta.
Vi prego, per la lapide non usate quelle foto.
La maledizione del doppio
Quando faccio la spesa, finisco quasi sempre per buttarne la metà.
Non me ne vanto, ma oh, non c’è verso, non imparo mai.
“Prendo un bel po’ di verdura così mangio sano”. Peccato io sia una salutista part-time.
Di banane compro la vaschetta da quattro, ma poi non so mai quando mangiarle, ste belin di banane.
E diventan nere.
E ci vanno i moscerini.
E via nel bidone marrone con le zucchine, l’insalata e lo stracchino rimasto aperto per troppi giorni e diventato beige.
Dal fornaio sudo freddo quando mi chiedono “a posto così?” dopo aver ordinato un pezzo di focaccia che basterebbe a chiunque e anche a me, ma no, non è a posto niente se non ne prendo due, per poi mangiarne comunque uno solo.
Oggi a pranzo ho dovuto finire la pizza che mi ero portata al mare ieri, che dopo essere stata sei ore nello zaino sotto il sole e poi in frigo, vi lascio immaginare che buonona che era. Del resto il salutismo part-time prevede i weekend liberi.
È la maledizione del doppio, e non vale solo per il cibo.
Per uscire alle 8, mi alzo alle 6.
Per star fuori due giorni, quattro di tutto in valigia.
Devo sempre avere il doppio di ciò di cui ho bisogno.
Di ciò che mi basta.
Come se il doppio moltiplicasse per due una metà, e non un’unità.