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Il vecchio dei gatti

Sono qui da un po’, a riposare la schiena contro il muro assolato e scarabocchiato del casottino bianco che credo essere un osservatorio, quando lo sento parlare coi gatti. Mi affaccio da dietro il muro e lo saluto: mi pare scortese non fargli sapere che non è solo.
Parliamo sempre delle stesse cose: di come i gatti siano spaventati dalle persone che affollano il punto panoramico nei weekend, di cosa gli ha portato da mangiare, del suo rapporto speciale con Black, del mio rapporto speciale con questo posto, di quanto siano pericolose le strade in bicicletta e di quanto ci abbia rotto il belino la pandemia.
E soprattutto, anche se lo accenna soltanto, di come la morte della moglie lo faccia sentire solo. Non so da quanto tempo sia venuta a mancare, sta povera donna. Non so da quanto condividessero la loro quotidianità.
Non so perché lui abbia scelto proprio questo posto per lenire la tristezza e il vuoto che gli fanno abbassare lo sguardo e sorridere di tenerezza, come una tenerezza verso se stesso e la propria condizione di uomo solo disabituato alla solitudine.
“Sono andato dai cinesi a comprarmi delle presine, perché ogni volta che cucino mi brucio le mani”.
Di nuovo quello sguardo e quel sorriso.
“…Mi dureranno tre giorni. E un tappeto per il bagno, di quelli per non scivolare”.
Mi chiede perché vada già via, gli dico che ci rivediamo presto, mi risponde con un “grazie” pieno di malinconia e di incertezza.

Tutto bello, costa poco

“Tutto bello, costa poco”
“No, grazie”. Accenno un sorriso ma alzo a malapena lo sguardo.
“Sei sola? Dov’è tuo fidanzato?”
Mi viene da ridere ma non rido, non dico nulla, indico il mare col mento.
“Surfista?” mi chiede.
“Sirena” rispondo.

Ferite

Ho una piccola ferita sulla pelle, da settimane, forse una puntura di zanzara.
Ogni giorno la cerco, la accarezzo, ne valuto dimensioni, rilievo e consistenza.
Poi cerco un ingresso, una scucitura, un punto debole.
Gratto i bordi, affondo l’unghia nella pelle, scalzo con cautela la crosta e la strappo senza fretta, cercando di non far uscire sangue.
Ma continuo a fallire, a sanguinare.
Aspetto che si riformi la crosta e poi torno a tormentarla, rischiando di infettare la ferita.
Le dimensioni della cicatrice aumentano, e io non trovo pace finché non l’ho vinta su quella crosta.
Dovrei aspettare che cada da sola, o che si riduca al punto da scomparire, ma è più forte di me: torno sempre lì.
Il mio pensiero, torna sempre lì.
Al mattino, appena sveglia.
Mentre guardo un film distrattamente.
Sdraiata al sole con gli occhi chiusi.
Le mie dita, tornano sempre lì.

Mosca senza testa

Alla Coop sono allo sbando, una mosca senza testa. Com’è poi sta storia delle mosche senza testa? Che anche con la testa non mi sembrano eccellere in senso dell’orientamento. Mi rendo conto ora che la mosca potrebbe essere il mio animale guida.
Mi aggiro fra le corsie senza sapere cosa volere, di cosa avere bisogno, cosa può sopravvivere alla mia voglia di non essere mai a casa e di mangiare di merda. Sulla lista della spesa una sola voce: “parmigiano”.
Sbatto contro finestre invisibili che mi rimbalzano altrove, in un’altra corsia, dove mi chiedo cosa voglio, di cosa ho bisogno, ma soprattutto perché e come cazzo ci sono arrivata.
Voi non ce l’avete un deja-vu? Io sì.
Una coppia litiga su come spendere non so quali buoni, se in casse d’acqua, magliette dello Spezia o pappette per un bimbo che, ad occhio e croce, dovrebbe nascere fra circa seimila mesi.
Una signora informa la sua amica signora che la sera prima “lo sai cosa mi sono fatta, che Franco voleva il pollo e allora ci ho fatto il pollo ma a me non mi andava il pollo e allora lo sai cosa mi sono fatta?”
“Eh”
“La pasta e fagioli. Ma sai come l’ho fatta?”
“Eh”
“I fagioli li ho mezi sfrulà”
Ahh, eh, belin che finale di stagione bomba, signora. Sa invece io come me la son fatta? L’ho cattà in vaschetta bèla pronta.
Poi l’ho fatta scadere e l’ho buttata nel cesso.
Voi non ce l’avete un deja-vu? Io sì.

C’ho in testa una canzone

– Framura –
C’ho in testa una canzone.
La canticchio, ribadisco il ritornello, in silenzio, sotto la mascherina, nella mia testa, sparo acuti che ciao.
– Bonassola –
C’ho in testa una canzone, e mica ci faccio caso a quale.
– Levanto –
Merda.
C’ho in testa una canzone e non vorrei ma non c’è verso. Non la copre il rumore del treno, né la musica da discoteca proveniente dal vagone accanto, né le chiacchiere dell’uomo borioso che va a caccia di non so che cazzo di marmi non so dove cazzo,
– Monterosso –
della tizia che vuole andare ad Alassio fortissimo, tanto da ripeterlo al fidanzato decine di volte, che alla fine ci viene fuori un’altra canzone, che però non copre la canzone di prima: “voglio andare ad Alassio – ho trovato un marmo che bla bla bla nel fondo di un fiume – voglio andare ad Alassio – e bla bla bla – voglio andare Alassio”, e sotto sta musica che tunz tunz tunz, ma che poi che minchia c’è ad Alassio?
– Vernazza –
C’ho in testa una canzone e ti ricordi quella volta che
– Corniglia –
era il mio compleanno, eravamo qui, nessuno voleva starci ma era il mio compleanno e
– Manarola –
Possiamo scendere qui e ubriacarci tantissimo?
– Riomaggiore –
Possiamo scendere qui come quando stavo malissimo e ho detto “Dio ti prego dammi un segno qualsiasi” e ho visto quella tipa là che mi ha fatto dire “oh, Dio, certo che ci sai fare quando ti ci metti eh”?
– Spezia –
C’ho in testa una canzone, e non la coprono le birre, né le ore che passano, né il tramonto, né la lava via la doccia, né me la scordo col sonno, sta canzone maledettissima, che se potessi gliela farei cantare altre diecimila volte, nel mio letto, blu come la tristezza.

Io li capisco

Io li capisco quelli che non vogliono più vivere. È una cazzo di fatica, vivere.
È come se ti dicessero: la vedi quella montagna là? Quella altissima e ripidissima che per arrivarci in cima ci sono duemila sentieri sbranati dai rovi, e scalinate di massi rotti, che se non c’hai un falcino, una bussola e una torcia ci sta che ti perdi e non ti trovano più manco con l’elisoccorso? Vai, mettiti sto par de zavatte e incamminati.
Però poi da là sopra c’è una vista, ma una vista che porca puttana eh.
Eh sì, ho capì, però è anche ‘n atimo che guardi giù e ti sfracelli.

Io li capisco quelli che rifuggono l’amore.
L’amore è una roba che se non te n’avessero mai parlato penseresti di averci un brutto male, tipo una grave cardiopatia, un tumore allo stomaco, un disturbo neurologico, una seria insufficienza respiratoria.
Verrebbe da dire che chi cazzo te lo fa fare, un po’ come guardare i film di paura: ma perché devo andarmela a cercare, la sensazione di paura, che è una sensazione di merda?
Però è anche come andare al Muzzerone, che c’è una vista, ma una vista che porca puttana eh.
Eh sì, ho capì, però è anche ‘n atimo che guardi giù e ti sfracelli.