Al primo esame di maturità fui bocciata. Alle private, che non è da tutti.
Al secondo mi sedetti, lessi il titolo del tema, mi alzai e chiesi se potevo andarmene.
Mi dissero di sì, ma che avrebbe significato mandare a puttane tutto l’esame. Con altre parole, probabilmente, ma io ricordo solo il senso, e il senso era quello.
Forse provarono a convincermi a restare, forse no, fatto sta che me ne andai.
Uscita dall’edificio mi misi a piangere e camminai veloce verso la stazione di Brignole. Veloce per allontanarmi da lì, da quel posto, da quella scelta del cazzo. Veloce come la luce sperando che ciò mi rendesse invisibile.
Ero a Genova perché la scuola privata che frequentavo non era abilitata agli esami di maturità. E andava pure bene, perché l’anno precedente li feci a Cortina D’Ampezzo e quindi, insomma, sì: costrinsi i miei a un’evitabilissima vacanza a Cortina D’Ampezzo per oltretutto farmi bocciare.
Di Cortina D’Ampezzo ricordo il peso delle nubi, l’assenza del mare, gli sciatori con gli sci a rotelle.
Alla stazione di Brignole stringevo il telefonino che mi avevano dato i miei genitori perché potessi chiamarli: un Sony CMD Z1 con microfono estraibile. Stupendo. Erano ancora gli anni novanta, eh.
Stringevo questo telefono e piangevo, ed ero a Brignole su non so quale binario ad aspettare un treno che non volevo prendere, cercando il coraggio di fare una chiamata che non volevo fare.
Ma che alla fine feci.
“Mamma, sto venendo a casa”
“Così presto?”
“Già”.
Probabilmente non fu questo il dialogo esatto, ma ricordo solo il senso, e il senso era quello.
Mi han detto che ti piacciono i ragazzi
Mi han detto che ti piacciono i ragazzi
col ciuffo
liscio, pettinato di lato
baffetto stretto
sguardo un po’ incazzato
Mi han detto che ti piacciono i tipi
da spiaggia
costume a fiori
ciabatte infradito
abbronzatura discreta sotto peli sottili
Mi han detto che hai comprato una moto
per andare al mare col tuo ragazzo
col ciuffo
e il costume a fiori
che non sorride mai
Mi han detto che parlate poco
che non vi baciate spesso
che sulla sabbia bagnata
mi hai fatto un ritratto
col dito medio
La mattina
La mattina sa di zucchero a velo
su soffritti digeriti male
Sa di chiuso
di lenzuola umide
del vomito del gatto
sul tappeto della cucina.
La mattina sa di grasso di catena
su polpacci depilati in fretta
Sa di rabbia
di vento negli occhi
di colpi di grancassa
sotto la maglia sudata.
La mattina sa di fiori morti
nei bidoni dei cimiteri
Sa di incertezza
di lacrime secche
dei baci appena sveglie
che non ci diamo più.
Perfetto, grazie
Ho un pessimo rapporto coi parrucchieri: non mi piace la conversazione casuale con gli sconosciuti, ma anche i silenzi mi pesano, perché il mio silenzio mi fa sentire in difetto, come se dovessi soddisfare degli standard di simpatia e affabilità.
Anche limitando il dialogo allo stretto necessario, riscontro comunque problemi di comunicazione che onestamente non mi spiego. Eppure mi sembra di utilizzare un linguaggio semplice e comprensibile, seppure, a dire il vero, piuttosto tecnico.
Tipo oggi. Posto nuovo, mi fa sedere, mi lava, mi raccatto la testa dal lavabo con le mani perché ancora non li hanno inventati i lavabi da parrucchiere che non ti spezzano il collo, e mentre mi tampona con un asciugamano che sembra fatto di quella carta inutile dei tovagliolini dei bar, quelli che se ti asciughi con un foglio di domopak è uguale:
“Come glieli taglio?”
“Alora, intanto mi toglie sto papagnone qua dietro e per favore mi fa sparire sto effetto broccolone. Poi mi sistema la lanacchia sul collo e mi leva sta coda di rondine”.
Annuisce, ma il suo sguardo è perplesso e le sue mosse incerte.
“Come le sembra?”
“Perfetto, grazie”.
Rispondo sempre così, perché mi vergogno e un po’ mi dispiace dire che no, non mi piace per niente. E me lo porto a casa, quel taglio di merda.
Ogni maledetta volta.
Le giornate di pioggia
Le giornate di pioggia
passate inosservate
senza bisogno di luce
di aria
di voce
– Sono calma
sono presente
mantengo il controllo –
Le giornate di luce
passate al coperto
senza bagnarsi di pioggia
di ansia
di bolgia
– Sono salda
sono cosciente
mantengo il distacco –
Le giornate di merda
passate a fatica
senza scordarsi di niente
di un cazzo
di niente
– Sono sorda
sono altrove
mantengo il silenzio –
Jessie Sala
Un paio di settimane fa, passeggiando nel bosco, ho notato questo ramo adagiato tra le foglie secche e mi è parso chiaro che fosse un mitra. L’ho raccolto, l’ho imbracciato e ho mimato una raffica di spari, poi mi sono ricordata di avere quarantuno anni, mi sono sentita idiota e l’ho gettato a terra, abbandonandolo lì dove l’avevo trovato.
Questo lunedì, correndo sullo stesso sentiero, ho poggiato malissimo un piede e ho preso una storta atomica a una caviglia: un rumore molto poco rassicurante e poi giù per terra come un sacco. Un male porco. Sono rimasta lì a lamentarmi per un tempo indefinito, come Peter in quella puntata dei Griffin in cui cade e si fa male a un ginocchio.
Poi mi sono di nuovo ricordata che maledizione ho quarantuno anni, e quindi mi sono detta che belin, dai, è una storta, datti un contegno. Ma dal momento che di stare in piedi non c’era verso, mi sono guardata intorno in cerca di un bastone della mia vecchiaia e dopo averne scartati due o tre, ho ritrovato lui: il mitra. E ho scoperto che non era un mitra, ma una stampella costruita su misura per me: l’altezza giusta, l’impugnatura posta alla distanza perfetta. Tanto provvidenziale quanto inquietante.
Mentre arrancavo verso la mia auto sorretta da quella gruccia di fortuna, mi sentivo come in uno di quei film il cui protagonista è un intrepido e scaltro eroe che braccato, disperso e ferito deve trovare la via della salvezza contando soltanto sulle proprie forze e il proprio ingegno.
Guidare con la caviglia destra rotta – ho scoperto – non è semplicissimo. Certo, avrei potuto lasciare l’auto al Parodi e chiamare l’aiuto da casa, ma il protagonista del film di cui sopra, maledetto lui, non l’avrebbe mai fatto.
Nella sala d’attesa del Pronto Soccorso di Spezia sembra di stare in un ambulatorio veterinario di quelli lerci, dove “tanto son bestie, le bestie son sporche”.
Aria maleodorante, sedie scrostate e arrugginite, porte cigolanti, tabelloni non funzionanti, tempi di attesa impronosticabili. Gente che è lì dal pomeriggio e ancora non sa di che morte morire. Una donna in sedia a rotelle, in stato di semi-incoscienza, viene rilasciata con addosso solo le calze e un camice trasparente; quando il suo accompagnatore chiede sbigottito dove siano i suoi vestiti, gli viene risposto che “eeehhh, a me me l’hanno data così”.
Finalmente mi chiamano per fare i raggi e penso dai, forse me la sfango prima del previsto.
Dopo i raggi mi rispediscono in sala d’attesa e passa un’ora e mezza prima che vengano ad informarmi che mi avrebbero portata in sala gessi. Sala gessi a me fa sempre ridere, perché penso a un italo-americano che si chiama Jessie Sala; però me lo tengo per me perché non riderebbe nessuno e mi sentirei di nuovo scema come quando giocavo col mitra nel bosco.
Da Jessie Sala mi ci porta un ragazzotto gentile con una cariola sgangherata che non c’ha manco gli appoggi per i piedi, e quindi devo tenerli per aria mentre attraversiamo i giardini dell’ospedale, che ogni volta mi chiedo chi stracacchio l’ha progettato sto ospedale idiota coi padiglioni buttati uno qua e uno là, che per andare da uno all’altro devi pure pigliarti del freddo.
L’infermiere Jessie Sala mi fa un’esaustiva lezione sull’anatomia del piede per aiutarmi a comprendere la mia situazione clinica, mentre con pacata meticolosità taglia i miei jeans lungo la cucitura. “Per evitare di buttarli”, dice; “tanto fanno cagare”, dico.
A casa ci arriviamo all’una di notte.
Prima di deciderci ad andare al Pronto Soccorso, rassegnandoci al fatto che la mia caviglia non potesse aspettare fino al giorno seguente, avevamo ordinato un quantitativo di cibo tale che nel sacchetto erano stati messi quattro biscotti della fortuna e quattro paia di bacchette, malgrado fossimo in due.
Ne ho ancora una parte in frigo, a fare i bighi.
Il mitra è nell’ingresso, vicino alla porta. Farà i bighi anche lui, ma è evidente che fosse destinato a venire a casa con me.

Otto e quarantasei
Butto un occhio all’orologio mentre lavo i piatti di tre giorni, che vorrei buttarli nel cavedio i piatti di tre giorni, ma poi mi toccherebbe cattarne di nuovi e pure da nuovi van lavati, e allora li metterei nel lavello e camperei altri tre giorni a pizze, stronzate e chinotti, senza uscire mai più da sta grana di dover lavare i piatti.
L’orologio in cucina fa le otto e quarantasei. A qualsiasi ora, da settimane. E io lo so benissimo che è fermo, non è che me lo scordo e allora lo guardo e ogni volta dico “ah, già, devo cambiare la pila”. Cambiare una pila non ci vuole niente, ne avrò duecento nel cassetto delle cose a caso, è un attimo, mica come lavare i piatti.
Eppure no, non la cambio. Perché quando alzo lo sguardo verso quell’orologio, consapevole del suo limite, della sua immobilità, di sapere l’ora non me ne frega uno stracazzo di niente. È di certezze che ho bisogno.
Stasera cinese?
E poi, capito, parcheggio la macchina e resto seduta lì, coi fari spenti, una mano sul volante e l’altra sulla chiave, e tutte le faccende a cui ho evitato di pensare durante il giorno mi tornano su come come quando mangi cinese e ordini ottocento cose perché costa tutto un cazzo, e ti ci sfondi anche se fa tutto cagare, ma ovviamente ti si pianta fra lo stomaco e la gola e passi una nottata di merda a stramaledire la Cina e tutti i cinesi, riproponendoti di non ordinare mai più il loro stupido cibo, ma poi dopo una settimana “stasera cinese?” e non sai dire di no.
Tutte insieme, tornano su. Dallo stomaco, attraverso la gola, diventano un grido.
Tutte insieme, porca puttana. Proiettate sul vetro dell’auto come un film angosciante e di cui non afferro del tutto la trama.
Scomparire
Ho sognato di buttarmi giù dal Muzzerone.
No, non l’ho sognato, l’ho immaginato. Seduta sul mio letto, sveglia e lucida, con gli occhi fissi sulla parete troppo alta e troppo bianca di fronte a me, l’ho visto accadere, l’ho vissuto.
Gridavo, ripetevo “no, no, no!”, ma erano grida silenziose perché non avevo voce, mi mancava il respiro, piangevo, guardavo sotto di me e vedevo il mare e le rocce avvicinarsi alla stessa velocità a cui il mio cuore batteva. Negli occhi, mi batteva. Nelle orecchie, nello stomaco, nelle mani e nelle vene, mentre mi dimenavo con gambe e braccia come se cercassi di tornare indietro aggrappandomi all’aria, scalandola.
È durato un’eternità, e ho capito che io non voglio morire.
A volte però vorrei scomparire. Come certi personaggi secondari di certi telefilm, che da un giorno all’altro non si vedono più, così, senza alcuna spiegazione, e nessuno si chiede che fine abbiano fatto, come se non fossero mai esistiti.
Ecco, io a volte vorrei non essere mai esistita. Non solo cessare di esistere nel presente, ma anche nel passato, nei ricordi e nella storia delle persone che conosco e ho conosciuto. Cancellata, non dimenticata. Essere dimenticati è orribile, significa non aver contato abbastanza, non aver dato o fatto abbastanza, nel bene o nel male essere stati superflui, sostituibili. Sparire no, la sparizione deresponsabilizza.
Sì, è la responsabilità che mi pesa. Di quello che sono, di quello che sono per gli altri, o che vorrei essere, o che loro vorrebbero che fossi, o che io credo che loro vorrebbero che fossi, di come vorrei mi ricordassero e di come invece temo di farmi ricordare.
La responsabilità di ciò che faccio, di come ogni azione inneschi una reazione a catena che lo so, lo so che è lo stesso meccanismo per cui succedono anche le cose belle e le cose buone, ma come si fa? Come si fa a sostenerla quella responsabilità lì, che c’ho l’ansia pure a pulire i cessi, perché potrei intasarli facendoci cadere dentro il cellulare, il dentifricio, i miei sogni, le mie speranze, le mie giornate?
Chiusa una porta si apre un portone rotto
Chiusa una porta, si apre un portone. Rotto il portone, ce ne mettono uno posticcio di compensato, più basso di quello originale, che lascia entrare la luce sulle scale di quell’androne solitamente buio come l’inferno. E allora dici minchia, nel portone nuovo ci voglio un bel finestrone nella parte superiore che illumini a giorno sta caverna di ingresso, che non costringa gli ospiti degli affittacamere ad imparare qual è l’interruttore della luce e quale quello per uscire dal palazzo, che non ci faccia inciampare nelle cartacce e nei mozziconi di sigaro che gettiamo a terra perché deh, la pulizia delle scale due volte a settimana cosa la paghiamo a fare.
E invece no, frè, ci dovevi pensare prima, ormai ti puppi sto portonone spesso e cupo uguale a quello di prima, ma che tranqui, vedrai, ti farà sentire a casa.
E questo, fanti, è tutto quello che so sui serramenti, sulla vita e sull’amore.