Le mie ospiti taiwanesi hanno prenotato mesi fa dicendo che sarebbero arrivate alle dieci di sera. Le contatto un paio di giorni prima per avere conferma dell’orario, e non ricevendo mai risposta penso “sticazzi, arriveranno alle dieci di sera”.
Mi scrivono alle quattro e mezza per dirmi che sarebbero arrivate alle sei e io, che nel frattempo sono affanculo in bicicletta, mi scapicollo per rientrare in tempo per docciarmi e riceverle con un outfit un minimo più consono. Alle cinque e mezza mi informano che sono ancora a Pisa e non saranno a Spezia prima delle otto. Le odio già, e mentre rispondo a monosillabi come una fidanzata stizzita, comincio a pensare alla pessima recensione che scriverò su Airbnb.
Alle otto scendo a recuperarle in piazza perché si sono smarrite: le riconosco dalle valigie enormi e dal tipico guardarsi intorno a vanvera, malgrado abbiano numero civico e foto con tanto di frecce che indicano palazzo e portone. Mi avvicino chiamandole con degli “hey”, perché con la pronuncia dei nomi taiwanesi non è che me la cavi benissimo. Quando si accorgono della mia presenza alle loro spalle, si voltano e porca puttana sono bellissime: due sorrisi da restarci secchi, i lunghi capelli scuri mossi da una coreografia impeccabile, al rallentatore, come nello spot di uno shampoo. E all’improvviso ciao odio, ciao disappunto, ciao recensioni di merda, ciao meritocrazia, ciao ciao dignità.
I miei ospiti salernitani
I miei ospiti salernitani sono del 92 e mi danno del lei.
Vivono qui da cinque giorni e ci vivranno ancora per altri due; girano per casa in costume e cucinano dopo la doccia col turbante in testa, ascoltando quelle canzoni finto-indie italiane che vanno di moda adesso, che mi fanno cagare ma che mi viene comunque da fischiettare nel tragitto dalla mia camera al bagno, perché porca puttana le so tutte. E mi danno del lei.
Ma io non sono mica una signora, una con tutte stelle nella vita, ma per chi mi avete presa? Cioè, dai, bella raga, facciamoci i selfoni, postiamo le stories, beviamo le birre, diamoci i cinque altissimi, datemi del fottutissimo tu, vi prego.
Ma niente. Mi sento come quelle mamme imbarazzanti che rappano nelle pubblicità delle merendine, pensando di sembrare delle giustone agli occhi dei figli adolescenti, che invece vorrebbero palesemente morire male.
I miei ospiti salernitani sono del 92 e tengono il Nero d’Avola in frigo, e vorrei tanto dirglielo che non si fa, che è una schifezza, ma poi mi direbbero di farmi i cazzi miei e di tornare a postare i buongiornissimi su Facebook, ovviamente dandomi rispettosamente del lei, e allora bona, vado a letto che alla mia età è l’ora.
La giovane e graziosa ciclista anglofona di origine incerta
Certe storie sono fatte per essere raccontate, altre per essere dimenticate, altre ancora per essere inventate.
Questa è la storia di quella volta che, mentre pedalavamo su per la Litoranea, la mia compare ha bucato una gomma e siamo state soccorse da una giovane e graziosa ciclista anglofona di origine incerta.
Ci trova così: una completamente nera di grasso di catena – con tanto di mezzo baffo alla Hitler – intenta a cercare adesivi per terra, che vorrebbe usare come pezze posticce; l’altra a girare e rigirare un guanto usa e getta come se fosse un cubo di Rubik, alla ricerca di un’improbabile soluzione in stile McGyver.
La giovane e graziosa ciclista anglofona di origine incerta, provvista di tutta l’attrezzatura utile alla riparazione, ci fornisce una toppa e della colla, che maneggiamo con lo stesso fare esperto di un quindicenne alle prese col clitoride della sua fidanzatina.
Nel frattempo abbozzo un paio di battute in inglese, in un tentativo maldestro di smorzare l’imbarazzo, ma lo sguardo della nostra soccorritrice si fa sempre più eloquente: ci ha definitivamente e irreversibilmente classificate come abelinate.
Per conservare quel poco di dignità rimastaci, decidiamo di congedarla e finire il lavoro da sole: non insiste e si rimette in sella, rispondendo al nostro “tenchiu” con qualcosa che non capiamo, ma che nella nostra fantasia suona come un “pensatemi!” seguito da svariati emoji a forma di cuore.
Nel finale alternativo di questa storia, la giovanotta di cui sopra si innamora di me, ci sposiamo seduta stante e partiamo insieme per un cicloviaggio di nozze alla volta dell’infinito, lasciando la mia compare nella merda.
I miei ospiti neozelandesi
I miei ospiti neozelandesi sono dei fottutissimi fighi: altissimi, biondissimi, pettinatissimi, freschissimi; dentature da competizione, arti perfettamente proporzionati, la giusta percentuale di massa grassa e massa magra; sguardi luminosi, sorrisi convincenti, movenze da atleti.
I miei ospiti neozelandesi gradiscono l’uso condiviso della cucina, ma confondono la condivisione con l’usucapione, la cucina con l’intero immobile e me con loro madre: non puliscono, non riordinano, gli gira il cazzo se mi vedono in casa e non si fanno domande su chi abbia levato la frittata dallo scarico del lavandino.
I miei ospiti neozelandesi seguono una dieta ferrea che comprende esclusivamente uova, latte, Snickers e CocaCola.
I miei ospiti neozelandesi mi inoltrano le loro richieste via Whatsapp e non rispondono mai, né con un grazie né con un vaffanculo.
I miei ospiti neozelandesi saranno i miei coinquilini di merda per i prossimi quattro giorni e mi hanno già rotto i coglioni.
Però belin che fighi.
Le mie ospiti cinesi
Le mie ospiti cinesi arrivano prima dell’orario di check-in e la camera è ancora occupata dai miei ospiti costaricani. Posano le valigie, si accomodano in soggiorno e con una rapida scansione dell’ambiente circostante individuano tutte le prese elettriche disponibili; quindi estraggono pc, tablet, macchine fotografiche, GoPro, smartphone, smartwatch, smartband, una Smart e mettono tutto in carica. Poi chiedono di fare una doccia ma dico loro che nel mio bagno giusto una pisciata veloce e, se proprio devono, possono lavarsi una mano a testa.
Nel frattempo la stanza si è liberata e posso iniziare a pulire, mentre le ragazze avviano le pratiche per ottenere la residenza nel mio salotto.
Facendo avanti e indietro per prendere ciò che mi serve, le sento ridere fra loro ma il mio cinese è un po’ arrugginito.
Quando finalmente, stravolta marcia come se avessi pulito l’intero condominio, annuncio che è tutto pronto: “oh my God, you take cleaning so seriously!”, e giù a ridere come i pazzi mentre girano video verticali col cellulare, nei quali dichiarano che “it’s so clean I have to take a video”.
Mi aspetto una recensione del tipo: “posizione comoda, camera spaziosa ma un po’ troppo pulita”.
I miei ospiti vietnamiti
Alcuni giorni parlo un inglese decente, altri non so manco l’italiano.
Stasera i miei ospiti vietnamiti mi hanno telefonato perché non trovavano il portone e io ho fornito loro indicazioni dettagliatissime, ma purtroppo pare non conoscano la lingua dei macachi.
Quindi sono scesa in piazza e ho iniziato a sbracciarmi come il pupazzo gonfiabile che saluta come uno scemo, rivolta verso nessuno, perché non avevo manco capito se fossero qui, alla stazione o nel fottuto Vietnam.
Devono aver fatto il giro del palazzo quattro o cinque volte, poi han fatto una giravolta, l’han fatta un’altra volta e infine, un attimo prima di perdere ogni speranza, mi hanno trovata.
A quel punto erano stremati, perciò dopo avergli mostrato la camera accarezzando la mobilia come le signorine che vendono i materassi in tv, li ho salutati con un “bòna, night”.
Pranzo al sacco
Dopo aver scandagliato tutti i giardini pubblici in cerca di un posto all’ombra, finisco per accontentarmi di una panchina mezza al sole e mezza no e con lo schienale così reclinato che devo scegliere se stare appollaiata come uno psittacide, approfittarne per fare un po’ di addominali, oppure rinforzare i muscoli del collo in previsione del prossimo appuntamento con il lavatesta della parrucchiera.
Quando finalmente trovo una posizione che mi consente di non vomitare quello che sto mangiando e di mantenere un’apparente disinvoltura, vedo due tizi poco più in là sollevare una panchina di peso e spostarla nel punto più ombreggiato e fresco di tutti i giardini, per poi sedersi soddisfatti ed estrarre da un sacchettone di carta due bei Morettoni da 66.
Ahi, quanto brucia la sconfitta, assai più di questo sol.
I miei ospiti canadesi
Stamattina sistemo i miei ospiti canadesi e vado a lavorare. Quando torno è tutto buio, non vola una mosca e penso siano andati a vedere un po’ di mondo, come ci si aspetta da dei turisti. Quindi mi faccio da mangiare con la radio a bomba, interloquendo a voce alta con gli speaker, col cibo e con gli oggetti, e forse ciocco anche un paio di rutti. Poi mi metto comoda, ovvero in mutande, e con questo outfit da spiaggia vado in bagno dove piscio con la porta semiaperta. Nel frattempo (dannatissima radio commerciale) canto una pessima canzone di J.Ax di cui ricordo solo “Puertorico” e che quindi fa: “nananananaaaaaaa nananana Puertoricoooo”. A ripetizione, con crescente entusiasmo, mentre faccio lavatrici, stendo lavatrici, do la cera, tolgo la cera, sempre in mutande perché dai, ci son quaranta gradi, poi mica arriveranno adè quelli là.
Poco fa, giusto un attimo dopo essermi finalmente ritirata nella mia ala del castello, li sento uscire di camera, dove erano rimasti per tutto questo tempo, silenziosi come dei fottutissimi gatti ninja.
I miei ospiti bulgari
I miei ospiti bulgari parlano solo bulgaro e sembrano avere una conformazione facciale che gli impedisce di esprimere qualsiasi sentimento diverso dal giramento di cazzo.
Sono arrivati con un’auto a noleggio per la quale non smetteranno di stare in ansia finché non ci rimetteranno il culo sopra e la riporteranno dove l’han presa.
Il soggiorno gliel’ha prenotato la figlia, che padroneggia la tecnologia e le lingue straniere; forse voleva essere un regalo, una bella vacanza in Italia per i loro trent’anni di matrimonio, e non ce l’hanno proprio fatta a dirle che non ce n’avevano manco per le balle, perché anche se son dei burberoni a lei le vogliono comunque un gran bene. E un po’ sento di volergliene anch’io, mentre mi parla al telefono in veste di aiuto da casa, con quella voce sottile e quel tono dolcino e un po’ colpevole di chi sa di averti appioppato una rogna infernale.
I miei ospiti bulgari hanno un sacco di bagagli, due terzi dei quali necessitano di essere conservati in frigorifero.
Mi piacciono le persone
Mi piacciono le persone che si innamorano di tutto, non di tutti.
Mi piacciono le persone che soffrono, ma sanno essere felici comunque.
Mi piacciono le persone che piangono spesso.
Mi piacciono le persone che sorridono più di quanto non ridano.
Mi piacciono le persone che predicano uguale a come razzolano.
Mi piacciono le persone che sanno riconoscere i propri sbagli.
Mi piacciono le persone che sanno riconoscere i propri meriti, senza per questo sentirsi migliori.
Mi piacciono le persone che si fermano a tenerti la porta aperta, anche quando sono di fretta.
Mi piacciono le persone che parlano piano.
Mi piacciono le persone che sanno auscultare.
Mi piacciono le persone che non temono nulla, tranne il nulla.
Mi piacciono le persone nelle sale d’aspetto, con le mani sul petto, incerte su cos’è causa e cosa effetto.