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I maschi che sfilano vestiti da poveri stronzi

Allora l’altra notte non dormivo e mi sono messa a smanacchiare il telefono, come consigliato dall’OMS in caso di insonnia: un po’ di shopping compulsivo di cui al risveglio non avrei avuto memoria, qualche appunto per cose che non scriverò mai, cazzi di gente che manco conosco, video di bici, di gatti, di volpi, di polpi, di cani sciancanati, un video di un tizio che sfila vestito da povero stronzo, che vai a sapere come ci sono arrivata, fatto sta che mi stava così sul belino che ne ho dovuti guardare cento. E adesso sono giorni che quel minchia di algoritmo di Instagram ha deciso che sono una super fan dei maschi che sfilano vestiti da poveri stronzi e niente, sono murata di sta roba che non riesco a smettere di guardare. Non riesco, oh, non ce la faccio. Li devo vedere tutti.
Così ho imparato il mestiere del maschio che sfila vestito come un povero stronzo. Come prima cosa bisogna vestirsi come un povero stronzo: braghe attillate sopra la caviglia, meglio se a brandelli; magliette attillatissime o sbragonatissime, meglio se a brandelli; scarpe fuori contesto e fuori stagione; sciarpa, berretto di lana e maniche corte a brandelli sulla neve, super mega parka pelosissimo ai Caraibi; accessori random tipo mazze da baseball, cani feroci, palle da basket, auto di lusso.
Le mosse del maschio che sfila vestito da povero stronzo sono poche ma efficaci. Quella che insegnano al primo giorno di corso è la mossa delle mani giunte. La ritroviamo anche nelle foto pubblicitarie di profumi o abiti, come nei book fotografici di attori e modelli: consiste nell’unire i palmi delle mani e dirigere uno sguardo profondo verso l’obiettivo. Nella versione video le mani bisogna sfregarsele ben bene, come se facesse molto freddo o si stesse escogitando un piano diabolico.
La seconda mossa è quella di guardarsi intorno con aria circospetta, che dà quel senso di “come gaso, sono un cazzo di ricercato delinquente troppo sexy” e “belin come son furbo, non mi sgamerete mai”.
La terza mossa consiste nel togliersi gli occhiali da sole, mettersi gli occhiali da sole, ritogliersi gli occhiali da sole. Alcuni osano estrarli da un marsupio a tracolla, altri se li mettono in testa, poi in tasca, poi addosso, poi di nuovo in tasca mentre si guardano attorno, con le mani giunte, che non sai mai che tempo fa e che aria tira nel mondo dei maschi che sfilano vestiti come poveri stronzi.
E poi c’è la mossa da pro, che è quella di camminare a gambe molto larghe e molto rigide, perché si sappia che bel popò di carnazzone c’è lì in mezzo, anche se in realtà è che le braghe son troppo strette, sti poveri fanti son scomodissimi ma deh, quanto sesso che fanno, quanta voglia di comprare quei vestiti di merda ed essere come loro, di avvicinare al naso le mani giunte e scoprire che sanno di pecorino, di brandire mazze da baseball, di guardarsi intorno sperando di non essere visti mentre si brandisce una mazza da baseball fingendo di essere dei fustacchioni della madonna mentre vorremmo solo toglierci sta roba e metterci un pigiamino di flanella, una copertina, e vaffanculo la neve, i Caraibi, il pecorino, le auto di lusso e i vestiti da poveri stronzi.

Stupida ottusa legalista

Arrivo in stazione non proprio di corsa, trentacinque minuti al mio treno.
Fuori fa meno due, dentro saran duecento.
In sala d’attesa, divieto di sedersi giustamente ignorato da tutti, tranne che da me. Stupida ottusa legalista.
Passeggio nel sottopassaggio: sottopasseggio.
Controllo sull’orologio i passi accumulati da quando sono sveglia: 401, compresi quelli dal letto al cesso.
Salgo le scale, scendo le scale, risalgo le scale; mi dico che con questo zaino pesantissimo dev’essere un buon allenamento. Mi ripropongo di informarmi sulla pratica degli squat con zaino in spalla, consapevole che una tale idiozia mi procurerebbe soltanto delle gran culate in terra e un tris di ernie.
La Freccia di Stocazzo è in ritardo di soli cinque minuti, quindi in orario. Cinque minuti seduta sulla panchina senza schienale del binario 2, malgrado l’adesivo rosso sbiadito di divieto. L’ottusa legalista si sente così colpevole che quando le si avvicinano gli sbirri si vede già in galera.
“Green Pass e documento, prego”
“Signorsì, signori”
“Grazie e buon viaggio signora”
“Ma prego, grazie a voi, volete vedere anche la patente? Tessera sanitaria? C’ho pure quella della rumenta, sono una cittadina modello, io. Sono stata brava? Ditemi che sono brava, nessuno mi dice mai che sono brava”.
Ma niente, sono già passati oltre.
Arriva il treno, controllo per la quindicesima volta carrozza e numero di posto sul biglietto.
“Carrozza 3” mi ripeto mentre il treno rallenta.
“Carrozza 3”.
Si ferma: carrozza 4. Mi dirigo verso la porta successiva, la capotreno fischia, mi volto, accelero il passo, inciampo sui miei stessi piedi, lo zaino enorme, mi vedo pancia a terra, gambe annodate, spianata sotto al mio bagaglio, la tizia che fischia, il treno che parte, un’alba rosa sulle vette innevate, gli sbirri al bar a bere caffè, meno uno gradi, lasciatemi qui.
Carrozza 5. Cogliona.
Torno indietro, imbarazzata nel seguire contromano il percorso indicato sul pavimento. Stupida ottusa legalista.
Carrozza 3. Ricontrollo il posto sul biglietto, scontro un passeggero, chiedo scusa, mi manda a cagare con accento lombardo, trovo il mio posto, ripeto due volte il numero a voce alta, poso lo zaino, saluto le due donne con cui condividerò la prossima ora di viaggio, nessuna risposta.
La madre – sono madre e figlia – ha le gambe accavallate per lungo sotto al tavolino e non accenna a spostarle per far posto alle mie, che rannicchio in un angolo.
Sta leggendo un libro sul Kindle; il carattere è impostato a una dimensione tale che conto otto righe per pagina e tre parole per riga. Cerco di immaginare il volume di un libro cartaceo per adulti con ventiquattro parole a pagina.
Fra una pagina e l’altra, impartisce lezioni alla figlia – giovane, vai a sapere quanto – su come trovare lavoro tramite i social.
“Scrivigli su Messenger”
“Non puoi scrivergli te?”
“Eh no, devi farlo tu. Ma prima cambia foto profilo. Mica puoi cercare lavoro in costume da bagno”.
Finalmente scendono e posso avviare i lavori di ripristino della circolazione negli arti inferiori.
La prossima tocca a me.
Sono pronta e insacchettata dieci minuti prima del tempo. Mi dirigo verso l’uscita, stavolta seguendo diligentemente il percorso suggerito, ma mi fermo davanti alla porta adibita alla salita. Ci penso un attimo, poi mi dico che ma sì, scenderò da lì, tanto ormai sono una delinquente.

Certo che son belle le donne

– Certo che son belle le donne, eh.
– Eh sì.
– Anche quelle brutte, dico.
– E ma se son brutte…
– Ma sì, tipo hai presente la cassiera della Coop?
– Eh, ce n’è una, tanto…
– Dai, quella che c’è il sabato pomeriggio, vado sempre da lei anche quando c’è più coda che alle altre casse.
– Perché sei scemo.
– No, è che…
– Comunque no, non ce l’ho presente.
– Dai, quella con la faccia un po’ storta, pettinata come mia nonna.
– Non è morta tua nonna?
– Fai te.
– Mah.
– Non lo sai che i capelli crescono anche dopo che sei morto?
– Merda, bisognerà farsi trovare preparati allora.
– In che senso.
– No, dico, farsi uno di quei tagli per farli crescere in ordine.
– …
– Te lo chiedono sempre, i parrucchieri: che facciamo, li tagliamo o li facciamo crescere?
– Sì, e poi te li tagliano comunque e dopo un mese sei punto e a capo.
– Ma perché te vai dal barbiere di quando avevi sei anni. Ma poi c’hai due peli, che ne sai.
– Eh, appunto. Io li volevo far crescere.
– Per farti il riporto?
– Vai a cagare.
– Comunque ho capito qual è la cassiera.
– Ooh, sì?
– Sì, quella con quei capellacci lunghi rossicci senza un verso.
– E la faccia storta.
– Sì, non è proprio bellissima.
– Oh, che ti devo dire, io quando alza lo sguardo per salutarmi mentre mi mette lo scontrino nel sacchetto, che cazzo ne so, fa una faccia, c’ha un’espressione che io me la sposerei.
– Eeh, belin.
– Giuro. Ma pure quella lì…
– Quella alla fermata dell’autobus?
– Quale? Ah, sì, anche quella… Con quell’aria di una che c’ha avuto una giornata di merda. Non la trovi bella?
– Avrà il doppio dei tuoi anni.
– Ma che c’entra! Dico solo che è bella.
– Sì, va bene, io però preferisco le ventenni.
– Eh, ho capì.
– Sono fresche, piene di vita, di voglia di fare, di conoscere.
– Sì, sì…
– Le ventenni quella roba lì che ti deturpa il viso dopo una giornata di merda, mica ce l’hanno. Se la sciacquano via col Topexan.
– Dio, ma esiste ancora il Topexan?
– Ma che ne so. A me mi ci chiamavano da ragazzina, Topexan.
– Me lo ricordo.
– E certo, mi ci chiamavi pure te.
– E dai, eravamo fanti.
– Sarà per quello che adè vado dietro alle ventenni.
– Non ti seguo.
– Facevo cagare. Aggiungici tutta la sbatta di essere lesbica. Ora dai, c’ho il mio perché.
– …Ma resti umile.
– E dai, dico che ora è più facile. Quando cresci è più facile, ma ti resta come un buco nella cronologia degli eventi, se le cose non le vivi al momento giusto.
– No, aspetta, mi stai dicendo che ti piacciono le ventenni perché a sedici c’avevi i brufoli?
– Forse.
– Va già bene che non ti piacciono minorenni, allora.
– E vabbè, ma tutte le tempistiche si sfasano, capisci?
– Comunque guarda che mi piacciono anche a me le ventenni, eh.
– Eh, grazie, a te ti piace anche la cassiera coi capelli da morta.
– Dio, non farmici pensare.
– Te c’hai un problema.
– Oh, ma è sabato oggi?
– Sì, è sabato…
– Andiamo alla Coop?
– Ma c’abbiamo un aperitivo fra mezz’ora!
– Eh appunto, mica ci vorrai arrivare a mani vuote.
– …Al bar??
– Eh vabbè, metti che dopo rimediamo un invito a cena, c’abbiamo già il vino e non facciamo la figura dei cialtroni.
– Cinque minuti. Entri, prendi il vino e esci.
– Ok.
– Senza la cassiera.
– Dici che se pago col bancomat, la dà una sbirciata al nome sulla carta e se lo segna per cercarmi e contattarmi?
– Dico che se non è reato ci si avvicina.
– Solo per quello, dici.
– Essere così cretini, dovrebbe essere reato.

Plank

Non so se avete presente il plank: quell’esercizio del demonio che promette con pochi minuti al giorno di farvi venire gli addominali di Gesù, la schiena di Jury Chechi e il culo di Jennifer Lopez, mentre bruciate le calorie di una pizza gorgonzola salsiccia e mascarpone.
Più completo del nuoto, più efficace di un’ora di palestra, il plank è utilizzato in alcuni paesi come metodo di tortura.
Pare che nella prossima stagione di Squid Game i concorrenti che non riusciranno a superare le prove non saranno uccisi a fucilate, ma costretti a tenere la posizione del plank per un minuto.
Se avete mai praticato questo tipo di esercizio e dopo appena dieci secondi avete cominciato a tremare e a chiedervi chi ve lo facesse fare e a cosa servisse, posso dirvi che ieri ho dovuto pulire una doccia lunga e stretta, così lunga e stretta che per raggiungere gli angoli più lontani mi sono trovata ad eseguire un plank su una mano sola e a un certo punto m’è apparso il coach di FixFit seduto sul cesso che mi incitava a suon di “vamos”.
È stato illuminante e devo dire che mi ha dato una certa soddisfazione. Se conoscete metodi più pratici per pulire una doccia lunga e stretta, non ditemeli, che c’ho da smaltire una settimana di cibo trentino.

Lo studio della mia nuova dottoressa

Lo studio della mia nuova dottoressa si trova nel palazzo in cui abito.
Il mio collega di attesa è un signore sulla sessantina, visibilmente infastidito dalle notizie del radiogornale: è tutto un “bah”, “pfff”, “ahah, seh, certo”.
Si alza e si siede impazientemente per poi dirigersi verso la finestra che affaccia sul cavedio:
“Fa un po’ vedere cosa si vede da qua… Ah, che schifo. Poveracci quelli che ci abitano”.
“Quella lì è la finestra della mia cucina”.
“Ma dico, se n’è accorta anche lei che non hanno detto niente della manifestazione?”
“Sono abbastanza sicura che ne abbiano parlato”.
“Ah, bé, meglio così. Cosa stava dicendo?”
“Che quella è la mia finestra”.
“Ah, ecco la dottoressa. Lei ha appuntamento?”
“Sì, ora”.
“Allora entro un attimo io. Faccio presto”.
Non capisco la logica e rispondo con la sempreverde mossa del cavatappi.
Mentre passano i minuti senza che nessuno esca da quella maledetta porta, mi alzo e mi siedo impazientemente, poi mi dirigo verso la finestra: effettivamente, bella merda.
Esce.
“Mi scusi eh, grazie, arrivederci”.
Grazie un cazzo.
“Si figuri, ci mancherebbe, arrivederci”.

Marcella

Quand’eravamo fanti c’era sta signora nel quartiere, sta vecchia, che si chiamava Marcella.
La Marcella c’aveva i capelli grigi, un po’ unti, mi pare ricci, un taglio corto acconciato senza cura né criterio.
La stessa cura caratterizzava il suo outfit: pantofolone sfondate, calzettoni corti e spessi, vestitone a fioroni fin sotto le ginocchia, di quelli spenti e senza forma tipici di molte donne di una certa età, che mi chiedo sempre quand’è che succede di preciso che ti svegli e dici “adè vado da Fulmine e mi catto un vestitone a fioroni”. Me lo chiedo con seria preoccupazione, perché io ora sono nella fase “adè vado da Decathlon e mi catto ‘na giacchetta gialla” e ho paura che fra l’una e l’altra non ci sia spazio per molte altre fasi.
La Marcella c’aveva la faccia di una che nella vita non era mai stata felice. C’aveva la faccia di una che ogni passo le faceva male, e quel male la faceva incazzare.
Non c’aveva un buon odore, la Marcella. Mi sa che un buon motivo per lavarsi non lo trovava da un po’.
La Marcella se la chiamavi per nome ti rispondeva “merda”, sempre, secco, di botto, senza voltarsi né alzare lo sguardo da terra. Non so come lo avessimo scoperto né da quanto andasse avanti sta storia, ma da bravi pezzi di stronzetti che eravamo, ogni volta che la vedevamo, giù a chiamarla solo per sentirci rispondere “merda” e ridere come dei matti. E allora ancora. E “merda”. E giù a ridere. E ancora. Fino a che non spariva dentro al portone di casa.
E così ogni giorno:
“Marcella!”
“Merda.”
“Marcella!”
“Merda.”
“Marcella!”
“Merda.”
Avrebbe potuto durare in eterno, senza che mai quel “merda” acquisisse toni o sfumature differenti, che cambiasse intonazione, che esprimesse un qualcosa di diverso da quello che a noi non sembrava altro che un tic esilarante.
Era un po’ come schiacciare ripetutamente la lettera J del Grillo Parlante per sentirlo ripetere “ilòta”.
Ilòta mi fa ancora ridere.
La Marcella sarà bella che morta, a quest’ora. E io non lo so che problema avesse, che vita le fosse toccata, non lo so cosa cazzo l’aspettasse una volta sparita in quel portone.
Ma ci penso spesso. E mi dispiace.
Quando mi guardo e penso “eccolo lì, sono la Marcella”, mi dispiace.

Non mi alzo

Non mi alzo
non mi azzardo
Il mio sangue è di cemento:
armato.

Non mi affanno
non mi affaccio
Non mi sporgo dalla porta:
blindata.

Non mi sveglio
non mi scanto
Il mio sguardo è come un muro:
bianco.

Non mi muovo
non mi sposto
Il mio cuore è solo un muscolo:
ripieno.

Mi pento e mi dolgo

– Mi pento e mi dolgo…
– Ti penti e ti duoli?
– Oh, cazzo… E te che ci fai qua?
– Ma come che ci faccio?
– È casa mia.
– C’ho l’ubiquità.
– Ma è casa mia. Camera mia. È…
– Ubiquità, frè.
– “Frè”? Ma come cazzo parli?
– Ma come parli tu, oh.
– Va bene, scusa.
– Dunque, dicevi?
– Che mi pento e mi dolgo…
– Di che?
– Dei miei… No, scusa, così non ce la faccio.
– A fare?
– A continuare… Dai, frè, te ne puoi andare?
– “Frè”? Ma come cazzo parli?
– …
– Dai, vai avanti, fai finta che non ci sono. Non è così che funziona?
– Sì, ma…
– Ma cosa?
– Ma… Non lo so, dai. Così è strano.
– Ma sono sempre io.
– Sì, però dai, cioè…
– Cioè che?
– Cioè che dai, è roba privata…
– Lo sai che la verrò a sapere comunque, vero?
– Sì, però… Anzi, a proposito: com’è che funziona? Telecamere nascoste? Microfoni? Microchip? Origliatori professionisti, tipo gli occhi e le orecchie del re?
– Te l’ho detto, frè: ubiquità.
– See, bona.
– E bona… O ci credi o non ci credi.
– Non ci credo.
– E allora mollami.
– Ma c’ho bisogno… C’ho… Mi sento in colpa, mi sono… Non sto bene, dai, dammi una mano.
– Ma se non ci credi non funziona.
– Allora ci credo. Ci credo, giuro. Ci credo. Aiutami, dai.
– Mmm…
– E dai, frè…
– Cerchi di diventare mio amico per avere dei favori da me?
– Sì.
– Non funzionerà.
– Perché?
– Ubiquità, ricordi?
– E allora?
– Pensaci bene.
– Certo che sei permalosetto, oh.
– Stocazzo.
– Ma…
– Ma stocazzo.
– Ok, scusa, dai. Biretta?
– Mh.
– E dai… C’ho la Poretti 4 malti…
– 4?
– 4.
– Va bene.
– Però prima puoi andare un attimo di là?
– Va bene. Ma ti ricordi la faccenda dell’ubiquità?
– Sì. Tu ti ricordi che non ci credo?
– Ah, già.
– Vuoi anche due patatine?
– Magari.

Mi han detto che ti piacciono i ragazzi

Mi han detto che ti piacciono i ragazzi
col ciuffo
liscio, pettinato di lato
baffetto stretto
sguardo un po’ incazzato

Mi han detto che ti piacciono i tipi
da spiaggia
costume a fiori
ciabatte infradito
abbronzatura discreta sotto peli sottili

Mi han detto che hai comprato una moto
per andare al mare col tuo ragazzo
col ciuffo
e il costume a fiori
che non sorride mai

Mi han detto che parlate poco
che non vi baciate spesso
che sulla sabbia bagnata
mi hai fatto un ritratto
col dito medio

Ho mangiato il tuo budino

– Ho mangiato il tuo budino.
– Il MIO budino?
– Sì, quello in frigo.
– Quale frigo?
– Il mio.
– Ma non ci vediamo da due anni, come fa ad esserci un MIO budino nel tuo frigo?
– Infatti era scaduto.
– Ah, ecco.
– Però era buono.
– Mh. E perché non l’hai mangiato prima?
– Non mi andava.
– Potevi buttarlo.
– Mi dispiaceva.
– Hai tenuto un budino scaduto in frigo per due anni perché ti dispiaceva buttarlo?
– Era tuo…
– E in due anni non ti è mai andato, ma stasera improvvisamente…
– Avevo voglia di dolce e non avevo nient’altro.
– Capito.
– E allora poi ti ho pensato.
– E mi hai scritto. Dopo due anni. Per dirmi del budino.
– Sì.
– Vuoi dirmi qualcos’altro?
– No.
– …
– Buonanotte.
– Ciao.