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Vorrei non fosse il mare

vorrei non fosse il mare a calmarmi
ma il lampeggiare ritmato
delle auto in doppia fila

vorrei non fossero le onde a darmi pace
ma il tintinnio orchestrale delle posate
nei ristoranti affollati del centro

vorrei non fosse quel moto tormentoso
ad alleviare le mie ansie
ma il solido cemento che calpesto

vorrei non fosse il sale il sapore che cerco
quando abbracciandomi le ginocchia
le assaggio con un bacio

Ho sognato che avevo un gatto

– Ho sognato che avevo un cane.
– Un cane?
– No, scusa, forse era un gatto. Ho sognato che avevo un gatto.
– Un gatto.
– Sì, un gatto. Ma perché fai quella faccia lì? Mica ho detto rinoceronte… Alpaca… Che ne so… Cefalopode. Se ti dicessi “ho sognato che avevo un cefalopode”, tanto tanto. Ma un gatto…
– Mh. E quindi sto gatto?
– Non mi ricordo. Lo portavo al parco.
– Allora era un cane.
– Ma perché, scusa, non ce lo posso portare un gatto al parco? Non hai visto quelli su Instagram che portano i gatti nei posti e gli fanno le foto fighe e diventano influencer della movida felina?
– Va bé, allora c’avevi sto gatto e lo portavi al parco.
– Sì. Ma poi scusa, era un sogno, eh. Te che sogni ti fai? Che ti svegli, mangi un toast, bevi un caffè, fai la cacca e corri al lavoro?
– Io non faccio sogni.
– E belin, adè.
– Ma no, davvero.
– Ma dai, è che non te li ricordi. Prova a pensarci, all’ultimo sogno che hai fatto.
– Boh, non saprei.
– Ma non è possibile, dai.
– Eh oh.
– Ma dormi, almeno?
– Sì, non meno di otto ore a notte.
– Sai che questo per me sarebbe un sogno bellissimo?
– Dormire otto ore a notte?
– Sì. Come fai? Non ce li hai i pensieri, le ansie, la testa piena delle cose successe durante il giorno, di quelle che avresti voluto che fossero andate diversamente, delle cose dette male e di quelle che avresti potuto dire, di tutto quello che dovrai fare il giorno dopo e come farlo? Non ti conti i battiti, i respiri, gli organi e le ossa? Non ti scappa la pipì anche se l’ultima volta che hai bevuto erano le due del pomeriggio? Non hai paura dei ladri, delle catastrofi, di una telefonata nel cuore della notte che ti dice che i tuoi genitori e tutti i tuoi amici sono morti?
– No.
– E se stanotte muoio?
– Cosa.
– No, dico: ci pensi se stanotte muoio e ti chiamano per dirtelo?
– Ma chi mi dovrebbe fare una chiamata del genere?
– Perché, non vorresti saperlo??
– Cosa cambierebbe se lo sapessi il mattino dopo?
– No, niente…
– Poi io il telefono lo spengo di notte.
– E se ti cercano?
– Ma chi.
– Boh… Tua madre?
– Mia madre non mi chiamerebbe mai di notte.
– Neanche se tuo padre avesse un infarto?
– No, aspetterebbe che fosse mattino.
– Ah. E tu non vorresti saperlo subito?
– Per fare cosa? Operarlo?
– Tu non sei normale.
– Però io dormo.
– Mh.

La mattina

La mattina sa di zucchero a velo
su soffritti digeriti male

Sa di chiuso
di lenzuola umide
del vomito del gatto
sul tappeto della cucina.

La mattina sa di grasso di catena
su polpacci depilati in fretta

Sa di rabbia
di vento negli occhi
di colpi di grancassa
sotto la maglia sudata.

La mattina sa di fiori morti
nei bidoni dei cimiteri

Sa di incertezza
di lacrime secche
dei baci appena sveglie
che non ci diamo più.

Le giornate di pioggia

Le giornate di pioggia
passate inosservate
senza bisogno di luce
di aria
di voce

– Sono calma
sono presente
mantengo il controllo –

Le giornate di luce
passate al coperto
senza bagnarsi di pioggia
di ansia
di bolgia

– Sono salda
sono cosciente
mantengo il distacco –

Le giornate di merda
passate a fatica
senza scordarsi di niente
di un cazzo
di niente

– Sono sorda
sono altrove
mantengo il silenzio –

Stamattina sono andata in bici dopo due mesi

Stamattina sono andata in bici dopo due mesi, e mentre mi vestivo ho avuto una sgradevole sorpresa, che poi non è stata affatto una sorpresa: i calzoncini faticavano a salire, la giacca a chiudersi, anche le scarpe sembravano essere diventate più strette.
Merda, due mesi e non mi entra più niente.
Ma poi perché dico che non mi entra, quando sono io a non entrarci? È un chiaro tentativo di deresponsabilizzazione: è colpa loro, mica mia. Bastardi.
Ah, come sono fan della deresponsabilizzazione.
Ma torniamo a noi. A me.
A me che oggi sono andata in bici dopo due mesi e non ero buona da un belin di niente, ma porca puttana quanto ne avevo bisogno.
Di sudare, di avere il fiatone, di sentire il cuore pompare. Perché sì: sono andata fino a Lérse, mezz’ora a passo nonno e c’avevo già il fiatone. Ma cosa volete, in questi due mesi il mio massimo sforzo ginnico è stato camminare sulle stampelle, sollevare le birette e lavarmi il dente su un pé solo. ‘Na vitaccia.
Il cuore, comunque, è una roba assurda. Che c’ha bisogno di battere forte per smettere di battere forte. Come se ne avessimo più di uno, ognuno con una funzione diversa, tipo i polpi. Un cuore per l’ansia, uno per l’amore, uno per restare vivi.
Ma chissà cosa dico, c’ho più vino che saliva in bocca.
Un ultimo bicchiere, uno soltanto.
L’ultimo bicchiere di vino bevuto tutto d’un fiato prima di andare a letto è come una testata secca contro al muro, data di proposito, col preciso intento di crollare sul colpo e non risvegliarsi prima di averlo smaltito tutto, quel vino, e prima che tutto, ma proprio tutto, vada molto più che benissimo.
Così, da solo, senza nessuno sforzo.
Allora io mi metto qui un attimo a riposare gli occhi, giusto un attimo, poi arìvo eh.

Vorrei ucciderti nel sonno

Vorrei ucciderti nel sonno

Tagliarti la gola
le arterie
la strada

Soffocarti con un calzino
con la maglietta dei CCCP
con le lenzuola stropicciate da un’altra

Ucciderti

Farti paura da morire
farti a pezzi tutti uguali
farti cadere male

Nel mio sonno
che non arriva
che non mi sveglia

Che mi lascia sola

Otto e quarantasei

Butto un occhio all’orologio mentre lavo i piatti di tre giorni, che vorrei buttarli nel cavedio i piatti di tre giorni, ma poi mi toccherebbe cattarne di nuovi e pure da nuovi van lavati, e allora li metterei nel lavello e camperei altri tre giorni a pizze, stronzate e chinotti, senza uscire mai più da sta grana di dover lavare i piatti.
L’orologio in cucina fa le otto e quarantasei. A qualsiasi ora, da settimane. E io lo so benissimo che è fermo, non è che me lo scordo e allora lo guardo e ogni volta dico “ah, già, devo cambiare la pila”. Cambiare una pila non ci vuole niente, ne avrò duecento nel cassetto delle cose a caso, è un attimo, mica come lavare i piatti.
Eppure no, non la cambio. Perché quando alzo lo sguardo verso quell’orologio, consapevole del suo limite, della sua immobilità, di sapere l’ora non me ne frega uno stracazzo di niente. È di certezze che ho bisogno.

Stasera cinese?

E poi, capito, parcheggio la macchina e resto seduta lì, coi fari spenti, una mano sul volante e l’altra sulla chiave, e tutte le faccende a cui ho evitato di pensare durante il giorno mi tornano su come come quando mangi cinese e ordini ottocento cose perché costa tutto un cazzo, e ti ci sfondi anche se fa tutto cagare, ma ovviamente ti si pianta fra lo stomaco e la gola e passi una nottata di merda a stramaledire la Cina e tutti i cinesi, riproponendoti di non ordinare mai più il loro stupido cibo, ma poi dopo una settimana “stasera cinese?” e non sai dire di no.
Tutte insieme, tornano su. Dallo stomaco, attraverso la gola, diventano un grido.
Tutte insieme, porca puttana. Proiettate sul vetro dell’auto come un film angosciante e di cui non afferro del tutto la trama.

Scomparire

Ho sognato di buttarmi giù dal Muzzerone.
No, non l’ho sognato, l’ho immaginato. Seduta sul mio letto, sveglia e lucida, con gli occhi fissi sulla parete troppo alta e troppo bianca di fronte a me, l’ho visto accadere, l’ho vissuto.
Gridavo, ripetevo “no, no, no!”, ma erano grida silenziose perché non avevo voce, mi mancava il respiro, piangevo, guardavo sotto di me e vedevo il mare e le rocce avvicinarsi alla stessa velocità a cui il mio cuore batteva. Negli occhi, mi batteva. Nelle orecchie, nello stomaco, nelle mani e nelle vene, mentre mi dimenavo con gambe e braccia come se cercassi di tornare indietro aggrappandomi all’aria, scalandola.
È durato un’eternità, e ho capito che io non voglio morire.
A volte però vorrei scomparire. Come certi personaggi secondari di certi telefilm, che da un giorno all’altro non si vedono più, così, senza alcuna spiegazione, e nessuno si chiede che fine abbiano fatto, come se non fossero mai esistiti.
Ecco, io a volte vorrei non essere mai esistita. Non solo cessare di esistere nel presente, ma anche nel passato, nei ricordi e nella storia delle persone che conosco e ho conosciuto. Cancellata, non dimenticata. Essere dimenticati è orribile, significa non aver contato abbastanza, non aver dato o fatto abbastanza, nel bene o nel male essere stati superflui, sostituibili. Sparire no, la sparizione deresponsabilizza.
Sì, è la responsabilità che mi pesa. Di quello che sono, di quello che sono per gli altri, o che vorrei essere, o che loro vorrebbero che fossi, o che io credo che loro vorrebbero che fossi, di come vorrei mi ricordassero e di come invece temo di farmi ricordare.
La responsabilità di ciò che faccio, di come ogni azione inneschi una reazione a catena che lo so, lo so che è lo stesso meccanismo per cui succedono anche le cose belle e le cose buone, ma come si fa? Come si fa a sostenerla quella responsabilità lì, che c’ho l’ansia pure a pulire i cessi, perché potrei intasarli facendoci cadere dentro il cellulare, il dentifricio, i miei sogni, le mie speranze, le mie giornate?