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L’acqua magica

– Quest’acqua è magica – mi dice quando mi avvicino alla fontana per riempire la borraccia. Sta seduto a prendere ombra su una panchina lì a fianco: ciabatte di plastica, bragoni chiari poco sotto il ginocchio, camicia celeste aperta su una canotta bianca. Non molto diverso dal mio outfit estivo, se non fosse per le ciabatte, che non uso volentieri perché mi stanno malissimo e mi fanno sentire una signorottona che va in Piazza del Mercato a comprare il tonno. Se state pensando che anche sembrare un vecchio che boccheggia su una panchina non sia un’ambizione degna di una giovanotta di quasi quarantadue anni, lasciatemi dissentire.
– Addirittura? – gli dico.
– Eh sì eh! Podenzana c’ha quasi vinto due campionati del mondo.
“In che senso? Fanno i campionati del mondo dell’acqua?” vorrei rispondere, ma per fortuna non faccio in tempo perché, forse notando il mio sguardo confuso, sente il bisogno di accertarsi:
– Conosce Podenzana, vero?
– Sì, sì, certo! – rispondo, anche se in realtà per me Podenzana è un posto dove si mangiano i panigacci buoni.
– Eh, lui si allenava sempre qui e beveva da questa fontana. Acqua magica!
– Ah, ma per me mi sa che non basta l’acqua magica.
– Perché, non ce la fa?
“A fare cosa?”, vorrei dire. Ma di nuovo mi fermo in tempo.
– Lei è professionista? – insiste.
– See, io sono una cialtrona!
– Cos’è?
– Una cialtrona! – Ripeto, ostentando un sorrisone.
Gira le spalle quasi deluso, alza le braccia mimando un cavatappi e si allontana lentamente, sospirando:
– Non si può essere tutti campioni.
Eh no, non si può. C’è bisogno di perdenti, perché esistano i campioni.
L’acqua magica, comunque, sapeva di ferraglia, e a me è rimasta solo una gran voglia di panigacci.

La mattina

La mattina sa di zucchero a velo
su soffritti digeriti male

Sa di chiuso
di lenzuola umide
del vomito del gatto
sul tappeto della cucina.

La mattina sa di grasso di catena
su polpacci depilati in fretta

Sa di rabbia
di vento negli occhi
di colpi di grancassa
sotto la maglia sudata.

La mattina sa di fiori morti
nei bidoni dei cimiteri

Sa di incertezza
di lacrime secche
dei baci appena sveglie
che non ci diamo più.

Stamattina sono andata in bici dopo due mesi

Stamattina sono andata in bici dopo due mesi, e mentre mi vestivo ho avuto una sgradevole sorpresa, che poi non è stata affatto una sorpresa: i calzoncini faticavano a salire, la giacca a chiudersi, anche le scarpe sembravano essere diventate più strette.
Merda, due mesi e non mi entra più niente.
Ma poi perché dico che non mi entra, quando sono io a non entrarci? È un chiaro tentativo di deresponsabilizzazione: è colpa loro, mica mia. Bastardi.
Ah, come sono fan della deresponsabilizzazione.
Ma torniamo a noi. A me.
A me che oggi sono andata in bici dopo due mesi e non ero buona da un belin di niente, ma porca puttana quanto ne avevo bisogno.
Di sudare, di avere il fiatone, di sentire il cuore pompare. Perché sì: sono andata fino a Lérse, mezz’ora a passo nonno e c’avevo già il fiatone. Ma cosa volete, in questi due mesi il mio massimo sforzo ginnico è stato camminare sulle stampelle, sollevare le birette e lavarmi il dente su un pé solo. ‘Na vitaccia.
Il cuore, comunque, è una roba assurda. Che c’ha bisogno di battere forte per smettere di battere forte. Come se ne avessimo più di uno, ognuno con una funzione diversa, tipo i polpi. Un cuore per l’ansia, uno per l’amore, uno per restare vivi.
Ma chissà cosa dico, c’ho più vino che saliva in bocca.
Un ultimo bicchiere, uno soltanto.
L’ultimo bicchiere di vino bevuto tutto d’un fiato prima di andare a letto è come una testata secca contro al muro, data di proposito, col preciso intento di crollare sul colpo e non risvegliarsi prima di averlo smaltito tutto, quel vino, e prima che tutto, ma proprio tutto, vada molto più che benissimo.
Così, da solo, senza nessuno sforzo.
Allora io mi metto qui un attimo a riposare gli occhi, giusto un attimo, poi arìvo eh.

Dignità

A Senato c’è un signore, avrà ottant’anni, pigiama celeste, fantasia di ancore.
Fa ginnastica a bordo strada, poco distante da casa, incalzato dalla moglie che in piedi davanti alla porta gli grida qualcosa che non riesco a sentire: forse che è pronto il caffè, o che lo vogliono al telefono, o forse soltanto che è un cretino.
Respira forte mentre alza ed abbassa le braccia assorto, e i polmoni gli si riempiono di smog.

Sul Canale Lunense c’è un ragazzetto, avrà quindici anni, tuta sgargiante, bici da montagna.
Si molleggia sui pedali, fa salti sul posto e quando ci incrociamo impenna: sono invidiosissima, che io a impennare non ho mai imparato.
Mi scappa un “bomber!”, mi manda a cagare, ma poi sento che ride.

Viale XXV aprile, c’è una puttana, avrà cinquant’anni, mascherina chirurgica, piumino viola.
Raggiunge la sua postazione di lavoro attraverso la sterrata che costeggia la strada: testa alta, passo stanco ma sicuro, una grossa borsa in una mano e una sedia pieghevole nell’altra.
“Che dignità”, penso.
“Che pensiero di merda”, mi dico poi.

Il vecchio dei gatti

Sono qui da un po’, a riposare la schiena contro il muro assolato e scarabocchiato del casottino bianco che credo essere un osservatorio, quando lo sento parlare coi gatti. Mi affaccio da dietro il muro e lo saluto: mi pare scortese non fargli sapere che non è solo.
Parliamo sempre delle stesse cose: di come i gatti siano spaventati dalle persone che affollano il punto panoramico nei weekend, di cosa gli ha portato da mangiare, del suo rapporto speciale con Black, del mio rapporto speciale con questo posto, di quanto siano pericolose le strade in bicicletta e di quanto ci abbia rotto il belino la pandemia.
E soprattutto, anche se lo accenna soltanto, di come la morte della moglie lo faccia sentire solo. Non so da quanto tempo sia venuta a mancare, sta povera donna. Non so da quanto condividessero la loro quotidianità.
Non so perché lui abbia scelto proprio questo posto per lenire la tristezza e il vuoto che gli fanno abbassare lo sguardo e sorridere di tenerezza, come una tenerezza verso se stesso e la propria condizione di uomo solo disabituato alla solitudine.
“Sono andato dai cinesi a comprarmi delle presine, perché ogni volta che cucino mi brucio le mani”.
Di nuovo quello sguardo e quel sorriso.
“…Mi dureranno tre giorni. E un tappeto per il bagno, di quelli per non scivolare”.
Mi chiede perché vada già via, gli dico che ci rivediamo presto, mi risponde con un “grazie” pieno di malinconia e di incertezza.

Il peggiore dei coglioni

Mi accorgo della sua presenza alle mie spalle quando inizio ad arrancare su per Ameglia zigzagando con andatura svogliata, distratta e poco efficiente. Mi scuso per non averlo visto e avergli quasi tagliato la strada.
“No, figurati, saliamo insieme”
“Eh, non credo”
“No, no, io vengo da Portovenere, son più stanco di te”.
Chissà perché dà per scontato che io venga da meno lontano. Poi belin, te m’è ito Portivene, mica Sao Paulo do Brasil.
Quando qualche minuto dopo ci ripensa e mi chiede da dove sia partita io, vorrei farlo secco con una risposta a caso tipo “Pinerolo”. Poi vorrei dirgli che non è che sono stanca, è che oggi ne ghe n’ho vogia.
Non lo faccio, rispondo seria, ma non posso fare a meno di immaginare partire una garetta a chi ha la scusa migliore per fare schifo:
“Sì, ma io c’ho le mestruazioni”
“Io la prostatite”
“Io la cellulite”
“Eh, ma io ho giocato a calcetto giovedì”
“Io a ping pong venerdi”
“Ho bevuto uno spritz sabato “
“Io ho mangiato la pizza, mi pare domenica”.
“Sono andato a prostitute lunedì”
“Ah, eri tu?”
Proseguiamo la salita ruota a ruota, lui davanti io dietro, ma a un certo punto decido che mi sto annoiando e lo stacco, non senza prima fargli notare che “no, sai, con la monomarcia se perdo il ritmo…”
Lo rivedo in cima, mentre riempio la borraccia alla fontana. Gli faccio un cenno ma tira dritto: mi sa che mi odia.
A quel punto mi metto in testa che devo batterlo anche in discesa. Gli do pure un bel po’ di vantaggio, tanto se non lo ribecco non lo saprà mai. Invece lo ribecco e lo supero in curva come un teppista, mentre lui si sta facendo i cazzi suoi guardando il panorama e grattandosi le cosce. Ma deh, bèlo, vale lo stesso, le senti le ovazioni da bordo strada?
Mi rendo conto adesso che quel “non credo” che gli ho detto all’inizio, abituata ad essere sorpassata da uomini, donne, grandi e piccini, ora suona come un “ti faccio il culo, stronzetto”.
Sono il peggiore dei coglioni.

Prosegui dritto in direzione stocazzo

Ve lo ricordate Out Run? Dai, quel gioco fighissimo degli anni ottanta in cui guidavi una Ferrari rossa scapottata su stradoni infiniti costeggiati da palme, deserti e piantagioni di pixel, e dovevi stare attento a non schiantarti contro le altre auto da poveri mentre sfrecciavi senza meta insieme alla tua ragazza bionda coi capelli al vento, e intanto l’autoradio ti sparava dei midi pazzeschi. E chi stava meglio di te.
Scendendo da Via XX Settembre all’alba verso il molo, coi profili neri delle palme, il cielo rosa, il mare rosa, i riflessi rosa sulle auto ferme al semaforo, sembra di stare in un livello di Out Run.

Sedici chilometri dopo, inizio la salita. La strada è così sgombra e silenziosa che mi ricorda le prime uscite post quarantena.
Il giro ce l’ho in mente da tempo: salire ai Casoni e percorrere l’Alta Via Dei Monti Liguri fino al Passo del Rastello, che in alcuni cartelli chiamano Rastrello, ma tanto io c’ho l’erre moscia e non mi cambia niente. Da lì, raggiungere il mare, farmi un bagno, bermi ‘na birra e tornare a casa in treno.
La salita per i Casoni l’avevo fatta solo una volta, qualche anno fa, e me la ricordavo mortale. Ricordavo bene.
Quello che non ricordavo erano i tafani. Combattere coi tafani mentre cerchi di tenere la ruota anteriore a terra su una pendenza del venti per cento non è una roba comoda. Tafani sulle gambe, sulla faccia, sul sedere attraverso i vestiti. Ho sempre pensato di attrarli per via del sudore, mi sono anche chiesta se emanassi odori equini o bovini, poi Google mi ha detto che a sti stronzi piacciono i colori scuri, perciò vestirmi da becchino quando vado in bici a quanto pare non aiuta.
Quando arrivo su, mi fermo alla trattoria/bar per prendere da bere. Chiedo un Estatè al limone e due bottigliette d’acqua naturale e ottengo Estatè alla pesca e acqua frizzante, come in quella puntata dei Simpson in cui Marge ordina un caffè in un bar australiano e le danno della birra, e ogni volta che prova a scandire “caffè”, il tizio ripete “birra”.
Riparto con l’Estatè alla pesca in tasca e le borracce piene di acqua frizzante, che fanno quel rumore delle lumache quando le butti a bollire, che è tipo un “ghiiii” straziantissimo, che lo so che non è che fanno ghiiii perché strillano, ma è comunque uno strazio che dico come cazzo vi viene in mente di mangiarvi le lumache?
Sull’Alta Via non incontro nessuno, solo cavalli e mucche.
Cavalli sexy, con dei culi della madonna che mi fanno dire cosa ci vado a fare in bici per averci sto culaccio mollo qua. Il cavallo, dovevo fare.
E tantissime mucche libere che un po’ mi fanno soggezione, così tante e così vicine, ma tanto a loro frega solo di mangiarsi l’erbino buono. Mi fanno una gola che me lo mangerei pure io, quel cazzo di erbino.
Che bravone, le mucche. Se un gatto fosse grosso quanto una mucca, ti farebbe un culo così. Le mucche no, le mucche son dei bravi fanti.

A Sesta Godano il navigatore mi porta in una strada cieca che prometteva un castello e invece mi fa finire in un cimitero. Ma almeno c’è una fontana, dove mi rifornisco mentre “prosegui dritto in direzione…” Stocazzo. In direzione stocazzo. Riparto.
Sono già abbastanza demolita e comincia a fare caldo, ma mi dico che il peggio è passato e che da qui è quasi tutta discesa.
L’ultima salita è quella che da Mattarana porta al Bracco: un’ascesa dolce, con pendenze modeste, ma che ora mi sembra eterna.
So che devo raggiungere 580 metri di altitudine e comincio a fare un conto alla rovescia con gli occhi fissi sul Garmin. A voce alta: centoventuno… centoventi… centodician… centoventi… centodiciannove… centodiciotto!
Il bivio per Framura è una visione. Il mare, è una visione. Mi scoppia il cuore e non so se sto morendo o se sono felice o se sto morendo di felicità.
A Bonassola la spiaggia è semivuota e l’acqua calda, calma e trasparente.
È il nove di settembre. Ho quarantuno anni e un giorno.
Avere quarant’anni è come stare a cavalcioni su un muro e guardare un po’ da una parte e un po’ dall’altra; a quarantuno ti sparano una sassata e caschi giù dal muro. E così a ogni decade, perché siamo scemi, e ci facciamo condizionare dal tempo, dai numeri, dalle ricorrenze, dalle aspettative, dalla smania di significare qualcosa, di servire a qualcosa, di lasciare qualcosa.
Però che roba, settembre.
Che roba, essere al mondo.

Gravel

Esco senza fantasia e senza una meta, affidandomi al caso e all’improvvisazione.
Non sono mai stata quel tipo di sportiva invasata con la dieta sana ed equilibrata, gli allenamenti mirati, le ripetute, i lunghi e i corti programmati, le schede, le tabelle. Mi piace improvvisare e mi piace divertirmi, facendo esattamente quello che ho voglia di fare in quel momento, alla velocità di cui mi sento capace in quel momento, senza le ansie da record. La verità è che sono una comodona, tendenzialmente pigra e carente in forza di volontà.
Non sono mai stata una sportiva, in effetti, anche se ho sempre amato giocare agli sport. Calcio, pallavolo, basket, ping-pong… Da bambina giocavo a tutto ciò che prevedesse l’uso di una palla, e in alcune cose ero anche piuttosto brava; ad esempio ero campionessa mondiale assoluta di palleggio coi piedi. Fui anche notata da un talent scout che mi propose di andare a giocare in una squadra di calcio femminile, ma rifiutai perché era troppa sbatta. Successe lo stesso con la pallavolo, qualche anno dopo: mi indispose da subito il fatto che il tizio avesse cercato di correggere la postura dei miei bagher, e non mi capacitavo di cosa gliene fregasse di quanto le mie gambe stessero più o meno divaricate e le mie ginocchia piegate, se la palla comunque andava dove doveva andare.

L’improvvisazione è uno dei motivi per cui ho scelto di abbandonare la bici da corsa per le gravel: la possibilità di lasciarmi incuriosire da un sentiero o da una strada sterrata, con un approccio più rilassato, più esplorativo, quasi turistico; di uscire dal traffico anche solo per pochi chilometri, anche solo per trovare un posto tranquillo dove riposarmi o dove pisciare, cosa che solo una donna ciclista in salopette può capire quanto sia complicata. Ma del resto, come ho sentito dire fin troppo spesso, “la bici è roba da uomini”. Certo, come le auto, la birra, i rutti e i peli sotto le ascelle.

La domenica, d’estate, è una lotta per la sopravvivenza. Per guadagnarsi un angolo di spiaggia, un posto sotto le frasche o una pozzanghera dove poter inzuppare un po’ i pe’, si è disposti a tutto: a svegliarsi prestissimo con la faccia da coglioni che la sera han fatto i leoni, a infrattarsi in luoghi improbabili dall’atmosfera giunglesca, a scarpinare o guidare per ore sotto al sole. Tutto per arrivare prima degli altri e guadagnare la coccardina con su scritto 1, apparecchiarsi il proprio lembetto di terra, sedersi, guardarsi un po’ intorno soddisfatti, rompersi il belino dopo un’ora, venirsene via e tornare a casa stressati e spossati.
La domenica, in estate, la solitudine è un lusso.

I sentieri che costeggiano il fiume, dove di solito, al massimo, incontro qualcuno che porta il cane a cacare e a rotolarsi sulle carogne, sono murati di auto e moto parcheggiate nei modi più fantasiosi.
Le vie lungomare sono un delirio di traffico che toglie la voglia di respirare.
L’unica soluzione per avere un po’ di pace è imbriccarsi su per qualche colle. Le gambe mi portano, non senza proteste, a Montedivalli: un paese il cui nome suona come un ossimoro. Un paese che non è nemmeno un paese, ma un insieme di piccolissimi agglomerati di case, situati lungo una salita di circa 8 chilometri.
Alla fine della salita la strada incrocia l’Alta Via dei Monti Liguri, che non ho ancora mai battuto perché ad andare per boschi da sola c’ho sempre mille paranoie: e se incontro i cinghiali? O i lupi? Se cado e m’amazo e mi ritrovano mai più? Se vado a finire affanculo e non so più tornare indietro? Oppure trovo un cadavere e mi tocca chiamare gli sbirri, star lì ad aspettare con in testa tutte le peggio scene di tutti i film di paura visti in tutta la vita; e poi dover testimoniare, rischiare di essere accusata di omicidio perché le divise mi fanno sentire colpevole anche quando non ho fatto niente, e sentirmi colpevole mi fa convincere di esserlo, e toh, eccolo lì: volevo fare un giro in bici e sono finita a invecchiare in gattabuia.
L’ultima volta che per un attimo lo spirito di avventura ha prevalso sulla cagasottaggine e mi sono lasciata ingolosire da quello sterratone largo, pedalabile, in mezzo al bosco, sono tornata indietro alla velocità della stramaledetta luce dopo aver chiesto informazioni ad un tizio in trattore, che una volta avvicinatosi si è rivelato essere il sosia di Michele Misseri.
Dunque arrivo alla vetta, se 600 metri si possono definire così, con l’idea di proseguire lungo la strada asfaltata che mi avrebbe riportata a valle in sicurezza: niente lupi, niente galera, “niente allarmi e niente sorprese”. Ma quando vedo un’auto sbucare da una nube di polvere alla mia destra mi dico che va bé, belin, se ci vanno le auto ci posso andare anch’io. Quindi mi avventuro, il Garmin dice che sto andando in direzione Bolano: è l’ultimo (o il primo, a ritroso) tratto dell’Alta Via, sulla carta il meno bello di tutti.
La strada in realtà scorre abbastanza divertente e senza troppo impegno; il panorama è quasi sempre nascosto dalla vegetazione, ma quando si apre e mi mostra il Golfo, Portovenere e l’isola Palmaria, sono in pace. La Palmaria è la mia stella polare: uno sguardo a quell’isoletta mi dà la misura del percorso che ho fatto e la direzione da prendere per tornare a casa.
Certo, devo sforzarmi di non pensare a Michele Misseri, alla fauna, al fatto che qualcuno mi avesse parlato di un losco traffico di droga proprio qui, lungo questo sentiero. “Ciclista di mezza età trovata in stato confusionale nei boschi di Bolano: dei balordi le avevano sciolto la droga nella borraccia”.

Invasori

Ci rubano il posto in spiaggia, il parcheggio, l’ultimo pezzo di focaccia, il tavolo alla sagra del muscolo.
Ci rubano il mare, i panorami, i tramonti, gli hashtag su Instagram.
Ci rubano settembre nei giorni feriali.

Niccolò ha 5 anni ed è di Modena, ma passa tutte le estati a Bonassola.
Sua mamma è incinta di un bimbo che nascerà quando lui avrà 18 anni e la Ferrari che gli ha promesso papà.
Niccolò è un invasore.

Al bar di Montaretto ci sono solo vecchi. Smettono di parlare quando mi vedono arrivare, non so se straniti, incuriositi o indispettiti dalla presenza di qualcuno che non conoscono.
Sono un invasore.
Poso la bici, ordino un succo orrendo, mi siedo due tavoli più in là e finalmente riprendono a chiacchierare.
A Montaretto, frazione di Bonassola, provincia della Spezia, parlano più genovese che spezzino.
Il genovese suona un po’ come il portoghese, ma con meno saudade e più cinismo.
Se non ho capito male, la signora coi capelli color 5 centesimi deve assolutamente andare dalla parrucchiera, ma sarà un’impresa perché bisogna prendere l’autobus, son tutte curve e l’ultima volta si è sentita malissimo.

Fase 2

Le uscite nel territorio comunale concesse anticipatamente da Toti non è che me le sia godute granché: stavo approfittando del decreto emesso da uno che fosse per me non governerebbe manco un pollaio, che ha voluto farsi figo in previsione delle prossime elezioni, alla faccia dei dati non così confortanti riguardo i contagi nella nostra regione.
Mi rendo conto che non abbia alcun senso, ma mi sentivo in colpa, come se stessi rubando l’aria.
E poi fare un giro in bicicletta all’interno del comune non è tanto diverso da correre nel raggio di duecento metri da casa: ti costringe a fare inversione di fronte a cartelli sbarrati su cigli di strade aperte, strade che non sono franate o interrotte, ma che proseguono e sai benissimo dove potrebbero portarti. Oppure a battertene il belino e andare dove vuoi a tuo rischio e pericolo. Nessun rischio e nessun pericolo, in realtà: che io sappia, non gliene è fregato un cazzo a nessuno di dove andassero i ciclisti.
Ma io c’ho sto problema che i decreti me li leggo davvero e li devo seguire alla lettera. Che devo sempre sapere di essere in regola, nel giusto, di essere stata brava, di meritare un biscotto. Perché poi se mi ferma la legge vado in ansia pure se non ho fatto niente, figuriamoci se so di aver sconfinato di cento metri. E a mentire, a inventarmi delle storie, non sono capace. Oddio, in certi casi so mentire benissimo a me stessa, che effettivamente si traduce nel mentire anche agli altri, ma lì è una roba complicata, perché devo crederci tanto da essere convinta di dire la verità.

La libertà di andare (quasi) dove si vuole, di rivedere i posti nei quali si è sognato di trovarsi in queste lunghe settimane, quando le uniche gite concesse erano quelle al supermercato, è tutta un’altra storia.
Ritrovare tutto stranissimo, diversissimo, ma stranamente normale.
Non incontrare nessuno su sentieri e strade che solitamente, in questa stagione, sono già presi d’assalto dai turisti.
Le spiagge, viste dall’alto, deserte come se le stessi guardando su Google Earth.
Ma tutto al suo posto, immutato, bellissimo, profumato, forse più verde, più rigoglioso. O forse semplicemente verde e rigoglioso quanto è normale che sia una primavera che ha fatto il suo corso anche mentre non eravamo lì a guardarla.
Lunedì, sulla panoramica delle Cinque Terre, era tutto così silenzioso, così solo mio, che mi sono fermata a uno svincolo, sono scesa dalla bici e ho passeggiato in mezzo alla strada: si sentivano solo le api ronzare intorno a quei piccoli fiori gialli che credo essere ginestre, ma non sono sicura, perché i fiori sono fra quel milione di cose di cui non so niente.
Quando sono ripartita, guardando il mare e la costa sotto di me, mi è venuto spontaneo un “ti amo” a voce alta.
Buffo, se ci penso, aver detto “ti amo” a un paesaggio, a un posto, e non ricordare quando e quanto tempo prima lo avessi detto l’ultima volta.

Oggi, che era estate, ho messo il berretto con le angurie e sono andata a trovare Montemarcello, che è fra i più stabili dei miei affetti.
Al solito punto panoramico non c’era nessuno, tranne il vecchio dei gatti, a cui mi è capitato di pensare durante la quarantena e che speravo di incontrare.
Ci siamo scambiati qualche considerazione sulla situazione, senza doverci dire “oh, ma hai visto cos’è successo?” perché deh, l’abbiam visto sì.
Mi ha detto di aver sofferto molto l’isolamento e la solitudine, e che ora che finalmente può uscire è pieno di dolori, perché è stato fermo per troppo tempo. Che il corpo ha bisogno di muoversi, di prendere il sole, di vitamina D.
E poi gli sono mancati i gatti. Soprattutto Black, la gatta nera che aveva chiamato così pensando che fosse un maschio. Che black in inglese valga pure al femminile, non glielo sono stata a dire.
Nelle ultime settimane a dar da mangiare alla Pezzata, al Selvatico e a Black ci ha pensato una signora di Ameglia, gattara certificata ai sensi di legge.
Ma se Black ora ha di nuovo un bel pelo lucido e folto è tutto merito delle cure del vecchio, che la pettina quotidianamente e le porta il nasello all’olio d’oliva di cui va matta. Sembrano parlarsi, quei due, e lei sembra anche piuttosto gelosa.
Sono congiunti, finalmente ricongiunti.