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La faccenda del tifo

Io tutta la faccenda del tifo non l’ho mai capita. Quella roba che ti scegli una squadra e le rimani fedele tutta la vita, ti ci incazzi, la difendi con gli amici al baretto, esci prima dal lavoro per fare a tempo a vedere la partita iniziare. Parlo di calcio perché qui c’abbiamo quello, ma vale anche per i paesi in cui lo sport nazionale è il curling o che ne so, il tiro alla fune.

Da bambina tifavo Inter perché mi piaceva quel pomelone di Nicola Berti, ma era un po’ come quando con mio fratello litigavamo su a chi di noi sarebbe spettato il Ciocorì e a chi il Biancorì, senza tra l’altro avere nessuno dei due: tifavamo entrambi per il Ciocorì e sostenevamo che il Biancorì fosse da sfigati (a.k.a. da femmine) e giù botte e pianti disperati.

Poi è successo che non me n’è fregato più un cazzo né di Nicola Berti, né dei fanti, né del palóne e manco del Ciocorì, che vai a sapere se lo fanno ancora.Proprio da mio fratello, ieri sera, ho cercato di avere qualche risposta in merito. Gli ho chiesto perché tifasse Genoa e mi ha detto che è come quando ti innamori: non lo scegli, sei scelto. Ho obiettato che però una squadra di calcio è qualcosa che non ha un’identità costante, perché negli anni cambiano i giocatori, gli allenatori, i dirigenti, e di conseguenza, credo, i suoi tratti distintivi. Ha insistito dicendo che a lui il Genoa gli fa gonfiare il cuore, e mentre lo diceva si è infervorato tanto che ho temuto che stesse parlando di altro e non del cuore.

Dunque eravamo a tavola coi nostri genitori e ho fatto questa battuta su me frè che gli viene il pippo duro pensando al Genoa, e manco il tempo di finire la frase che mi stavo già vergognando a morte. Come se in quella casa non avessi quarant’anni ma quattro, per sempre.