Ho un pessimo rapporto coi parrucchieri: non mi piace la conversazione casuale con gli sconosciuti, ma anche i silenzi mi pesano, perché il mio silenzio mi fa sentire in difetto, come se dovessi soddisfare degli standard di simpatia e affabilità.
Anche limitando il dialogo allo stretto necessario, riscontro comunque problemi di comunicazione che onestamente non mi spiego. Eppure mi sembra di utilizzare un linguaggio semplice e comprensibile, seppure, a dire il vero, piuttosto tecnico.
Tipo oggi. Posto nuovo, mi fa sedere, mi lava, mi raccatto la testa dal lavabo con le mani perché ancora non li hanno inventati i lavabi da parrucchiere che non ti spezzano il collo, e mentre mi tampona con un asciugamano che sembra fatto di quella carta inutile dei tovagliolini dei bar, quelli che se ti asciughi con un foglio di domopak è uguale:
“Come glieli taglio?”
“Alora, intanto mi toglie sto papagnone qua dietro e per favore mi fa sparire sto effetto broccolone. Poi mi sistema la lanacchia sul collo e mi leva sta coda di rondine”.
Annuisce, ma il suo sguardo è perplesso e le sue mosse incerte.
“Come le sembra?”
“Perfetto, grazie”.
Rispondo sempre così, perché mi vergogno e un po’ mi dispiace dire che no, non mi piace per niente. E me lo porto a casa, quel taglio di merda.
Ogni maledetta volta.