Ci trova in piedi in mezzo alla sterrata che porta alla vetta della Castellana, intenti ad architettare una scenografia che renda giustizia fotografica a quei centottanta gradi di panorama a cui sembra non mancare niente. A volte immagino che un giorno ci svegliamo, guardiamo verso il mare da Lerici, da Tellaro, da Marina di Massa, da diocristo Fosdinovo, e la Palmaria non c’é più: ci sono il Tino, il Tinetto, la punta di Portovenere con San Pietro, e nel mezzo nulla. Sparita, affondata, sgretolata, confiscata da un governo ladro. “Ma te lo immagini sto panorama senza la Palmaria?”
Michele non sembra particolarmente preoccupato da questa eventualità. Sta ispezionando l’ambiente circostante in cerca di supporti affidabili per le nostre biciclette: rami, massi, pile di sassi. Mentre io mi accontento di un equilibrio precario e fugace, lui sembra ricercare un’inalterabile stabilità: valuta l’irregolarità del suolo, la cedevolezza del terreno, la direzione dei venti, la compatibilità delle pietre raccolte al fine di creare costruzioni efficaci e capaci di resistere a un terremoto.
Mentre gli spiego che il segreto per trovare un buon equilibrio è quello di non aver paura di cadere, la mia bici rovina prevedibilmente a terra, procurandosi l’ennesima cicatrice.
“Lo fa sempre, sta scema”, dico al ciclista che si avvicina allarmato come
se non avesse visto un grosso pezzo di alluminio cadere, ma una persona svenire e battere pericolosamente la testa.
Ci trova così, dunque, sto tizio dall’inesauribile voglia di chiacchiere.
Parla un toscano che alle mie orecchie suona come una sconclusionata accozzaglia di vocali, tanto che devo chiedergli più volte di ripetere le frasi, e finisco comunque per annuire fingendo di aver capito. Annuire, abbozzare un sorriso da Gioconda e distogliere immediatamente lo sguardo: questa é la tecnica che mi ha permesso di spacciarmi per quasi 43 anni per un essere umano senziente.
Dice che la sua, di bici, è tutta fatta su misura: c’ha un motore della Madonna, due batterie con un’autonomia di trecento chilometri e un set di ruote che vengono prodotte soltanto in Svizzera. C’ha un monocorona che però è come se ce n’avesse tre, di corone, o almeno è quello che capisco io mentre ci stordisce con una sassaiola di vocali e termini tecnici cercando di spiegarci l’ingegnoso funzionamento del cambio.
Annuire, abbozzare un sorriso da Gioconda e distogliere lo sguardo.
Ci racconta dov’è stato, dove andrà, quante ore al giorno passa in sella, quanto spende per i vestiti. Non ci risparmia un pippone sull’efficienza dei pedali a sgancio rapido, notando che noi usiamo quelli liberi. Ci mostra le scarpette dicendo che ne ha un paio per ogni stagione, che ha sbagliato a mettere quelle, oggi, perché ha caldo. Gli suggerisco di farsi innestare le tacchette direttamente nelle piante piedi, ma non coglie la battuta e risponde che no, per l’estate c’ha i sandali.
Detto tutto quello che aveva voglia di dire, riaggancia finalmente le suole ai pedali e riparte. Lo ribecchiamo pochi minuti dopo, due tornanti più avanti, impegnato in una discesa lenta e cauta.
Mi prodigo allora in un sorpasso arrogante perché deh, te ti cioccherai anche trecento chilometri al giorno con quella motoretta lì, ma in discesa ti faccio il culo. Il segreto per vincere in discesa, del resto, è non aver paura di cadere.
Merda.
L’acqua magica
– Quest’acqua è magica – mi dice quando mi avvicino alla fontana per riempire la borraccia. Sta seduto a prendere ombra su una panchina lì a fianco: ciabatte di plastica, bragoni chiari poco sotto il ginocchio, camicia celeste aperta su una canotta bianca. Non molto diverso dal mio outfit estivo, se non fosse per le ciabatte, che non uso volentieri perché mi stanno malissimo e mi fanno sentire una signorottona che va in Piazza del Mercato a comprare il tonno. Se state pensando che anche sembrare un vecchio che boccheggia su una panchina non sia un’ambizione degna di una giovanotta di quasi quarantadue anni, lasciatemi dissentire.
– Addirittura? – gli dico.
– Eh sì eh! Podenzana c’ha quasi vinto due campionati del mondo.
“In che senso? Fanno i campionati del mondo dell’acqua?” vorrei rispondere, ma per fortuna non faccio in tempo perché, forse notando il mio sguardo confuso, sente il bisogno di accertarsi:
– Conosce Podenzana, vero?
– Sì, sì, certo! – rispondo, anche se in realtà per me Podenzana è un posto dove si mangiano i panigacci buoni.
– Eh, lui si allenava sempre qui e beveva da questa fontana. Acqua magica!
– Ah, ma per me mi sa che non basta l’acqua magica.
– Perché, non ce la fa?
“A fare cosa?”, vorrei dire. Ma di nuovo mi fermo in tempo.
– Lei è professionista? – insiste.
– See, io sono una cialtrona!
– Cos’è?
– Una cialtrona! – Ripeto, ostentando un sorrisone.
Gira le spalle quasi deluso, alza le braccia mimando un cavatappi e si allontana lentamente, sospirando:
– Non si può essere tutti campioni.
Eh no, non si può. C’è bisogno di perdenti, perché esistano i campioni.
L’acqua magica, comunque, sapeva di ferraglia, e a me è rimasta solo una gran voglia di panigacci.
Il peggiore dei coglioni
Mi accorgo della sua presenza alle mie spalle quando inizio ad arrancare su per Ameglia zigzagando con andatura svogliata, distratta e poco efficiente. Mi scuso per non averlo visto e avergli quasi tagliato la strada.
“No, figurati, saliamo insieme”
“Eh, non credo”
“No, no, io vengo da Portovenere, son più stanco di te”.
Chissà perché dà per scontato che io venga da meno lontano. Poi belin, te m’è ito Portivene, mica Sao Paulo do Brasil.
Quando qualche minuto dopo ci ripensa e mi chiede da dove sia partita io, vorrei farlo secco con una risposta a caso tipo “Pinerolo”. Poi vorrei dirgli che non è che sono stanca, è che oggi ne ghe n’ho vogia.
Non lo faccio, rispondo seria, ma non posso fare a meno di immaginare partire una garetta a chi ha la scusa migliore per fare schifo:
“Sì, ma io c’ho le mestruazioni”
“Io la prostatite”
“Io la cellulite”
“Eh, ma io ho giocato a calcetto giovedì”
“Io a ping pong venerdi”
“Ho bevuto uno spritz sabato “
“Io ho mangiato la pizza, mi pare domenica”.
“Sono andato a prostitute lunedì”
“Ah, eri tu?”
Proseguiamo la salita ruota a ruota, lui davanti io dietro, ma a un certo punto decido che mi sto annoiando e lo stacco, non senza prima fargli notare che “no, sai, con la monomarcia se perdo il ritmo…”
Lo rivedo in cima, mentre riempio la borraccia alla fontana. Gli faccio un cenno ma tira dritto: mi sa che mi odia.
A quel punto mi metto in testa che devo batterlo anche in discesa. Gli do pure un bel po’ di vantaggio, tanto se non lo ribecco non lo saprà mai. Invece lo ribecco e lo supero in curva come un teppista, mentre lui si sta facendo i cazzi suoi guardando il panorama e grattandosi le cosce. Ma deh, bèlo, vale lo stesso, le senti le ovazioni da bordo strada?
Mi rendo conto adesso che quel “non credo” che gli ho detto all’inizio, abituata ad essere sorpassata da uomini, donne, grandi e piccini, ora suona come un “ti faccio il culo, stronzetto”.
Sono il peggiore dei coglioni.
Prosegui dritto in direzione stocazzo
Ve lo ricordate Out Run? Dai, quel gioco fighissimo degli anni ottanta in cui guidavi una Ferrari rossa scapottata su stradoni infiniti costeggiati da palme, deserti e piantagioni di pixel, e dovevi stare attento a non schiantarti contro le altre auto da poveri mentre sfrecciavi senza meta insieme alla tua ragazza bionda coi capelli al vento, e intanto l’autoradio ti sparava dei midi pazzeschi. E chi stava meglio di te.
Scendendo da Via XX Settembre all’alba verso il molo, coi profili neri delle palme, il cielo rosa, il mare rosa, i riflessi rosa sulle auto ferme al semaforo, sembra di stare in un livello di Out Run.
Sedici chilometri dopo, inizio la salita. La strada è così sgombra e silenziosa che mi ricorda le prime uscite post quarantena.
Il giro ce l’ho in mente da tempo: salire ai Casoni e percorrere l’Alta Via Dei Monti Liguri fino al Passo del Rastello, che in alcuni cartelli chiamano Rastrello, ma tanto io c’ho l’erre moscia e non mi cambia niente. Da lì, raggiungere il mare, farmi un bagno, bermi ‘na birra e tornare a casa in treno.
La salita per i Casoni l’avevo fatta solo una volta, qualche anno fa, e me la ricordavo mortale. Ricordavo bene.
Quello che non ricordavo erano i tafani. Combattere coi tafani mentre cerchi di tenere la ruota anteriore a terra su una pendenza del venti per cento non è una roba comoda. Tafani sulle gambe, sulla faccia, sul sedere attraverso i vestiti. Ho sempre pensato di attrarli per via del sudore, mi sono anche chiesta se emanassi odori equini o bovini, poi Google mi ha detto che a sti stronzi piacciono i colori scuri, perciò vestirmi da becchino quando vado in bici a quanto pare non aiuta.
Quando arrivo su, mi fermo alla trattoria/bar per prendere da bere. Chiedo un Estatè al limone e due bottigliette d’acqua naturale e ottengo Estatè alla pesca e acqua frizzante, come in quella puntata dei Simpson in cui Marge ordina un caffè in un bar australiano e le danno della birra, e ogni volta che prova a scandire “caffè”, il tizio ripete “birra”.
Riparto con l’Estatè alla pesca in tasca e le borracce piene di acqua frizzante, che fanno quel rumore delle lumache quando le butti a bollire, che è tipo un “ghiiii” straziantissimo, che lo so che non è che fanno ghiiii perché strillano, ma è comunque uno strazio che dico come cazzo vi viene in mente di mangiarvi le lumache?
Sull’Alta Via non incontro nessuno, solo cavalli e mucche.
Cavalli sexy, con dei culi della madonna che mi fanno dire cosa ci vado a fare in bici per averci sto culaccio mollo qua. Il cavallo, dovevo fare.
E tantissime mucche libere che un po’ mi fanno soggezione, così tante e così vicine, ma tanto a loro frega solo di mangiarsi l’erbino buono. Mi fanno una gola che me lo mangerei pure io, quel cazzo di erbino.
Che bravone, le mucche. Se un gatto fosse grosso quanto una mucca, ti farebbe un culo così. Le mucche no, le mucche son dei bravi fanti.
A Sesta Godano il navigatore mi porta in una strada cieca che prometteva un castello e invece mi fa finire in un cimitero. Ma almeno c’è una fontana, dove mi rifornisco mentre “prosegui dritto in direzione…” Stocazzo. In direzione stocazzo. Riparto.
Sono già abbastanza demolita e comincia a fare caldo, ma mi dico che il peggio è passato e che da qui è quasi tutta discesa.
L’ultima salita è quella che da Mattarana porta al Bracco: un’ascesa dolce, con pendenze modeste, ma che ora mi sembra eterna.
So che devo raggiungere 580 metri di altitudine e comincio a fare un conto alla rovescia con gli occhi fissi sul Garmin. A voce alta: centoventuno… centoventi… centodician… centoventi… centodiciannove… centodiciotto!
Il bivio per Framura è una visione. Il mare, è una visione. Mi scoppia il cuore e non so se sto morendo o se sono felice o se sto morendo di felicità.
A Bonassola la spiaggia è semivuota e l’acqua calda, calma e trasparente.
È il nove di settembre. Ho quarantuno anni e un giorno.
Avere quarant’anni è come stare a cavalcioni su un muro e guardare un po’ da una parte e un po’ dall’altra; a quarantuno ti sparano una sassata e caschi giù dal muro. E così a ogni decade, perché siamo scemi, e ci facciamo condizionare dal tempo, dai numeri, dalle ricorrenze, dalle aspettative, dalla smania di significare qualcosa, di servire a qualcosa, di lasciare qualcosa.
Però che roba, settembre.
Che roba, essere al mondo.
Gravel
Esco senza fantasia e senza una meta, affidandomi al caso e all’improvvisazione.
Non sono mai stata quel tipo di sportiva invasata con la dieta sana ed equilibrata, gli allenamenti mirati, le ripetute, i lunghi e i corti programmati, le schede, le tabelle. Mi piace improvvisare e mi piace divertirmi, facendo esattamente quello che ho voglia di fare in quel momento, alla velocità di cui mi sento capace in quel momento, senza le ansie da record. La verità è che sono una comodona, tendenzialmente pigra e carente in forza di volontà.
Non sono mai stata una sportiva, in effetti, anche se ho sempre amato giocare agli sport. Calcio, pallavolo, basket, ping-pong… Da bambina giocavo a tutto ciò che prevedesse l’uso di una palla, e in alcune cose ero anche piuttosto brava; ad esempio ero campionessa mondiale assoluta di palleggio coi piedi. Fui anche notata da un talent scout che mi propose di andare a giocare in una squadra di calcio femminile, ma rifiutai perché era troppa sbatta. Successe lo stesso con la pallavolo, qualche anno dopo: mi indispose da subito il fatto che il tizio avesse cercato di correggere la postura dei miei bagher, e non mi capacitavo di cosa gliene fregasse di quanto le mie gambe stessero più o meno divaricate e le mie ginocchia piegate, se la palla comunque andava dove doveva andare.
L’improvvisazione è uno dei motivi per cui ho scelto di abbandonare la bici da corsa per le gravel: la possibilità di lasciarmi incuriosire da un sentiero o da una strada sterrata, con un approccio più rilassato, più esplorativo, quasi turistico; di uscire dal traffico anche solo per pochi chilometri, anche solo per trovare un posto tranquillo dove riposarmi o dove pisciare, cosa che solo una donna ciclista in salopette può capire quanto sia complicata. Ma del resto, come ho sentito dire fin troppo spesso, “la bici è roba da uomini”. Certo, come le auto, la birra, i rutti e i peli sotto le ascelle.
La domenica, d’estate, è una lotta per la sopravvivenza. Per guadagnarsi un angolo di spiaggia, un posto sotto le frasche o una pozzanghera dove poter inzuppare un po’ i pe’, si è disposti a tutto: a svegliarsi prestissimo con la faccia da coglioni che la sera han fatto i leoni, a infrattarsi in luoghi improbabili dall’atmosfera giunglesca, a scarpinare o guidare per ore sotto al sole. Tutto per arrivare prima degli altri e guadagnare la coccardina con su scritto 1, apparecchiarsi il proprio lembetto di terra, sedersi, guardarsi un po’ intorno soddisfatti, rompersi il belino dopo un’ora, venirsene via e tornare a casa stressati e spossati.
La domenica, in estate, la solitudine è un lusso.
I sentieri che costeggiano il fiume, dove di solito, al massimo, incontro qualcuno che porta il cane a cacare e a rotolarsi sulle carogne, sono murati di auto e moto parcheggiate nei modi più fantasiosi.
Le vie lungomare sono un delirio di traffico che toglie la voglia di respirare.
L’unica soluzione per avere un po’ di pace è imbriccarsi su per qualche colle. Le gambe mi portano, non senza proteste, a Montedivalli: un paese il cui nome suona come un ossimoro. Un paese che non è nemmeno un paese, ma un insieme di piccolissimi agglomerati di case, situati lungo una salita di circa 8 chilometri.
Alla fine della salita la strada incrocia l’Alta Via dei Monti Liguri, che non ho ancora mai battuto perché ad andare per boschi da sola c’ho sempre mille paranoie: e se incontro i cinghiali? O i lupi? Se cado e m’amazo e mi ritrovano mai più? Se vado a finire affanculo e non so più tornare indietro? Oppure trovo un cadavere e mi tocca chiamare gli sbirri, star lì ad aspettare con in testa tutte le peggio scene di tutti i film di paura visti in tutta la vita; e poi dover testimoniare, rischiare di essere accusata di omicidio perché le divise mi fanno sentire colpevole anche quando non ho fatto niente, e sentirmi colpevole mi fa convincere di esserlo, e toh, eccolo lì: volevo fare un giro in bici e sono finita a invecchiare in gattabuia.
L’ultima volta che per un attimo lo spirito di avventura ha prevalso sulla cagasottaggine e mi sono lasciata ingolosire da quello sterratone largo, pedalabile, in mezzo al bosco, sono tornata indietro alla velocità della stramaledetta luce dopo aver chiesto informazioni ad un tizio in trattore, che una volta avvicinatosi si è rivelato essere il sosia di Michele Misseri.
Dunque arrivo alla vetta, se 600 metri si possono definire così, con l’idea di proseguire lungo la strada asfaltata che mi avrebbe riportata a valle in sicurezza: niente lupi, niente galera, “niente allarmi e niente sorprese”. Ma quando vedo un’auto sbucare da una nube di polvere alla mia destra mi dico che va bé, belin, se ci vanno le auto ci posso andare anch’io. Quindi mi avventuro, il Garmin dice che sto andando in direzione Bolano: è l’ultimo (o il primo, a ritroso) tratto dell’Alta Via, sulla carta il meno bello di tutti.
La strada in realtà scorre abbastanza divertente e senza troppo impegno; il panorama è quasi sempre nascosto dalla vegetazione, ma quando si apre e mi mostra il Golfo, Portovenere e l’isola Palmaria, sono in pace. La Palmaria è la mia stella polare: uno sguardo a quell’isoletta mi dà la misura del percorso che ho fatto e la direzione da prendere per tornare a casa.
Certo, devo sforzarmi di non pensare a Michele Misseri, alla fauna, al fatto che qualcuno mi avesse parlato di un losco traffico di droga proprio qui, lungo questo sentiero. “Ciclista di mezza età trovata in stato confusionale nei boschi di Bolano: dei balordi le avevano sciolto la droga nella borraccia”.
Fase 2
Le uscite nel territorio comunale concesse anticipatamente da Toti non è che me le sia godute granché: stavo approfittando del decreto emesso da uno che fosse per me non governerebbe manco un pollaio, che ha voluto farsi figo in previsione delle prossime elezioni, alla faccia dei dati non così confortanti riguardo i contagi nella nostra regione.
Mi rendo conto che non abbia alcun senso, ma mi sentivo in colpa, come se stessi rubando l’aria.
E poi fare un giro in bicicletta all’interno del comune non è tanto diverso da correre nel raggio di duecento metri da casa: ti costringe a fare inversione di fronte a cartelli sbarrati su cigli di strade aperte, strade che non sono franate o interrotte, ma che proseguono e sai benissimo dove potrebbero portarti. Oppure a battertene il belino e andare dove vuoi a tuo rischio e pericolo. Nessun rischio e nessun pericolo, in realtà: che io sappia, non gliene è fregato un cazzo a nessuno di dove andassero i ciclisti.
Ma io c’ho sto problema che i decreti me li leggo davvero e li devo seguire alla lettera. Che devo sempre sapere di essere in regola, nel giusto, di essere stata brava, di meritare un biscotto. Perché poi se mi ferma la legge vado in ansia pure se non ho fatto niente, figuriamoci se so di aver sconfinato di cento metri. E a mentire, a inventarmi delle storie, non sono capace. Oddio, in certi casi so mentire benissimo a me stessa, che effettivamente si traduce nel mentire anche agli altri, ma lì è una roba complicata, perché devo crederci tanto da essere convinta di dire la verità.
La libertà di andare (quasi) dove si vuole, di rivedere i posti nei quali si è sognato di trovarsi in queste lunghe settimane, quando le uniche gite concesse erano quelle al supermercato, è tutta un’altra storia.
Ritrovare tutto stranissimo, diversissimo, ma stranamente normale.
Non incontrare nessuno su sentieri e strade che solitamente, in questa stagione, sono già presi d’assalto dai turisti.
Le spiagge, viste dall’alto, deserte come se le stessi guardando su Google Earth.
Ma tutto al suo posto, immutato, bellissimo, profumato, forse più verde, più rigoglioso. O forse semplicemente verde e rigoglioso quanto è normale che sia una primavera che ha fatto il suo corso anche mentre non eravamo lì a guardarla.
Lunedì, sulla panoramica delle Cinque Terre, era tutto così silenzioso, così solo mio, che mi sono fermata a uno svincolo, sono scesa dalla bici e ho passeggiato in mezzo alla strada: si sentivano solo le api ronzare intorno a quei piccoli fiori gialli che credo essere ginestre, ma non sono sicura, perché i fiori sono fra quel milione di cose di cui non so niente.
Quando sono ripartita, guardando il mare e la costa sotto di me, mi è venuto spontaneo un “ti amo” a voce alta.
Buffo, se ci penso, aver detto “ti amo” a un paesaggio, a un posto, e non ricordare quando e quanto tempo prima lo avessi detto l’ultima volta.
Oggi, che era estate, ho messo il berretto con le angurie e sono andata a trovare Montemarcello, che è fra i più stabili dei miei affetti.
Al solito punto panoramico non c’era nessuno, tranne il vecchio dei gatti, a cui mi è capitato di pensare durante la quarantena e che speravo di incontrare.
Ci siamo scambiati qualche considerazione sulla situazione, senza doverci dire “oh, ma hai visto cos’è successo?” perché deh, l’abbiam visto sì.
Mi ha detto di aver sofferto molto l’isolamento e la solitudine, e che ora che finalmente può uscire è pieno di dolori, perché è stato fermo per troppo tempo. Che il corpo ha bisogno di muoversi, di prendere il sole, di vitamina D.
E poi gli sono mancati i gatti. Soprattutto Black, la gatta nera che aveva chiamato così pensando che fosse un maschio. Che black in inglese valga pure al femminile, non glielo sono stata a dire.
Nelle ultime settimane a dar da mangiare alla Pezzata, al Selvatico e a Black ci ha pensato una signora di Ameglia, gattara certificata ai sensi di legge.
Ma se Black ora ha di nuovo un bel pelo lucido e folto è tutto merito delle cure del vecchio, che la pettina quotidianamente e le porta il nasello all’olio d’oliva di cui va matta. Sembrano parlarsi, quei due, e lei sembra anche piuttosto gelosa.
Sono congiunti, finalmente ricongiunti.
Lavatrici per coscienze sporche
Ieri mentre contemplavo quest’installazione artistica, cercando di dare un senso alla presenza di una lavatrice sul Parodi (toh, almeno so dove appoggiare la bici mentre mi metto il giacchetto), mi si è avvicinato un tizio a piedi, che dalla faccia sdegnata per un attimo ho pensato che credesse ce l’avessi portata io, lì, quella lavatrice. In bici, comodamente, caricandomela in groppa.
Se solitamente sono restia alle interazioni con gli altri esseri umani, ci sono circostanze in cui mi vengono stranamente naturali, come quando sono da sola in cima a un monte. Vai a sapere, sarà una specie di sentimento di solidarietà fra amanti dell’aria aperta. Chissà con quanti ho scambiato amabili chiacchiere in mezzo al nulla, per poi magari insultarci nel traffico cittadino da dentro le nostre auto, resi irriconoscibili dal cambio di scenografia, di outfit e di umore.
Mentre il tizio mi parlava, sprovvisto come me di mascherina, misuravo a occhio la distanza fra la sua faccia e la mia, e un allarme mi suonava nella testa: attenzione, attenzione, 99 centimetri, pericolo, indietreggiare. Ma quanto è scortese indietreggiare mentre uno ti parla? Tanto quanto non fare neanche una carezza alla sua cana buffa, vaporosa e sorridente, che mi annusava la mano, perché oddio, sei pazza? Non potrai lavarti le mani mai più, poi ti tocchi la faccia e muori!
Oh, mi sono sentita una persona orrenda. Mentre quelli che smollano gli elettrodomestici per strada me li immagino: contano i tornanti, individuano il punto esatto, tirano il freno a mano, si guardano intorno, scaricano affannosamente il rifiuto ingombrante e ripartono sgasando nel silenzio della notte. Soddisfatti e leggeri come dopo aver fatto una cacata epica.
E il pensiero di essere persone orrende non li sfiora, manco per un minuto, manco per il cazzo.

“Fiato”
Non starò qui a raccontare del perché ho iniziato ad andare in bici, di come la fine di una relazione mi avesse ridotta ad un’adolescente appena abbandonata dal tipetto con cui limonava da due settimane, che passa le giornate a disperarsi in cameretta ascoltando canzoni tristone e rileggendo i messaggi su WhatsApp, incapace di credere a chiunque provi a dirle che ne uscirà viva.
Non lo racconterò perché sarebbe tedioso anche per il più sfegatato dei fan di Cioè o di Ambra Angiolini ai tempi di Non è la Rai, ma anche perché io di anni ne avevo 34, e a 34, raga, c’è gente che gli adolescenti ce li ha come figli.
Perciò dirò solo che, citando un pezzo dei Do Nascimiento, “in certi giorni è solo la bici a darmi tregua”.
Il bello di lasciarsi in primavera e vivere in una città di mare è che hai un sacco di opzioni in più per impiegare quel tempo che non passa mai, per tentare di gestire quella sensazione di casa che ti brucia sotto al culo, quella smania di fare di tutto pur di non rimanere da solo coi pensieri, le malinconie e quella gran rottura di minchia che sono i ricordi. Opzioni tipo andare al mare, andare a pranzo al mare, andare a bere al mare, andare a buttarsi in mare da una scogliera altissima, andare al mare in bici.
E così un giorno ho preso il mio biciclettone da nonno – che fino ad allora stazionava in camera da letto con la sola funzione di attaccapanni – mi sono vestita come se stessi uscendo a far pisciare il cane e ho pedalato fino a Lerici: da Spezia, una ventina di chilometri fra andare e tornare, praticamente piani, a parte un paio di strappetti di poche centinaia di metri che per me erano come scalare lo Stelvio.
Un’impresa a dir poco eroica.
Credo sia stato un po’ come quando i maschi di mezza età divorziano e si comprano l’auto da bomber o si iscrivono in palestra per poi passare l’estate in spiaggia a mostrare i petti alle giovanotte.
Intendo quel meccanismo per cui in determinati momenti della vita, anziché andarci a buttare dalla scogliera altissima di cui sopra, ci inventiamo qualcosa che ci restituisca quel po’ di amor proprio che ci faccia guardare nello specchio e dire: porca puttana, sai cosa? Sono un figo.
Non mi viene in mente uno stereotipo corrispondente per le donne di mezza età, categoria alla quale ho peraltro recentemente scoperto, con rassegnato disappunto, di appartenere: al telegiornale davano una notizia del tipo “donna di mezza età trovata morta male; aveva 40 anni”. Merda.
Va tutto bene
Oggi a Tivegna un elegante quanto simpaticissimo ciclista in tutina arlecchino mi ha chiesto, col tono e l’espressione di chi sta facendo una domanda retorica, se la mia bici fosse a pedalata assistita, e quando gli ho detto che “deh, frè, per chi m’hai presa?” ha fatto una smorfia incredula perché proprio non gli tornava che fossi arrivata fin lì con le mie gamboccione, tra l’altro manco fossimo sul Mortirolo.
Ora: ok che nonostante io pedali un bel po’ c’ho delle medie ridicole, motivo per cui mi è stato recentemente suggerito di appendere la bicicletta al chiodo, però, amici ciclisti, m’avete stracagato la minchia. E poi io i chiodi non li so piantare. Anzi, se volete fare una cosa utile che vi faccia sentire dei super maschi, venite a darmi una mano col quadro che mi è stato regalato per il mio compleanno, che è da settembre che sta lì ad aspettare di essere appeso.
Comunque non è di questo che volevo parlare, ma di tutt’altra faccenda su cui mi arrovello da un po’.
C’avete presente quando nei film o nelle serie tv ci sono due che parlano e a un certo punto uno dice qualcosa di profondo e un po’ triste alludendo a se stesso e a una qualche merda che gli è piovuta addosso di recente, e l’altro ha un’improvvisa folgorazione che lo fa scappare via come un razzo dicendo “devo andare”, mollando lì il tizio senza salutarlo, dargli spiegazioni, né tantomeno fregarsene qualche cazzo di come stia, perché ora che ogni cosa è illuminata c’ha da correre forte a rimediare alle sue stronzate in modo da poter vivere felice e contento foreva and eva? No, dico: vi è mai capitato? Perché io sto ancora rimuginando su conversazioni avute tipo nel duemilauno, chiedendomi se forse, se anch’io avessi detto così anziché cosà, se avessi fatto anziché non fare, se non avessi fatto anziché fare, allora magari potrebbe essere che boh, non lo so mica, alla fine non è detto, meglio pensarci bene che poi, se no, chissà.
Underachievers, please try harder
Se sei un local, le Cinque Terre da maggio a ottobre te le puoi bello che scordare. A meno che tu non ci viva. Allora forse hai imparato a schivare la transumanza, hai un tuo scoglio segreto, e soprattutto non devi salire a bordo di un carro bestiame per arrivarci.
Per tutti gli altri, sono ormai una meta esclusivamente invernale.
Oggi era la giornata perfetta: sveglia presto causa sete infernale, diversi pasti da smaltire e colpe da espiare, solone, cielone bluone.
Da bambina il cielone bluone era il mio colore preferito. Lo è ancora, ma non ho capito a quale codice pantone corrisponda esattamente, perciò se me lo chiedessero dovrei rispondere che il mio colore preferito è “c’hai presente quando il cielo è serenissimo, in inverno o anche in autunno, senza nemmeno una nuvola, senza foschia, e sono tipo fra le 11 e le 15, e i contorni delle cose sono nettissimi, e l’orizzonte non finisce mai?” Per fortuna non è una domanda che ti fanno spesso, a quarant’anni.
Per andare alle Cinque Terre, di solito, scelgo la strada meno bella ma più facile, ovvero quella da Pignone. Che però è un tedio, soprattutto in questa fottutissima stagione che vi avverto, se non finisce almeno almeno entro due mesi faccio un casino.
Oggi me la sono sentita e sono passata da Volastra. Quando non le fai mai, le strade, tendi a scordarti il perché. Cioè, lo so che non passo mai da lì perché è una salita che ti prende a schiaffoni, ma non ricordavo quanto forti. E se non li prendi mai, gli schiaffoni, non è che ci sei abituatissimo.
Ma bòna, me la prendo comoda, mi faccio due discorsi a voce alta, mi stramaledico, mi incanto a guardare il panorama, e bene o male arrivo viva al bivio per Monterosso.
Scendo o non scendo? Tornare su è una bella botta, non lo faccio mai perché bla bla bla, ma checcazzo, underachiever che non sei altro, try harder.
Scendo.
La musica dei Monêtre, dalla tasca posteriore della giacca, mi accompagna lungo una risalita altrimenti troppo silenziosa; lenta, controllata, concentrata per mantenere il battito basso, per non andare in affanno. Per mantenere la calma, per non andare in paranoia.
Finché non vengo raggiunta da due tizi in e-bike, due ragazzotti sulla settantina, che mi offrono una spinta, che provo a rifiutare senza successo: il loro “perché devi fare fatica?” mi spiazza, vorrei rispondere che deh, e alora ci venivo col Liberty, ma fare sempre l’antipaticona è stancante, soprattutto se stai pedalando su una pendenza dell’11%. Quindi mi lascio portare fino al bivio per la strada panoramica, facendo in realtà il triplo della fatica, perché la spinta non è tale da compensare l’aumento di ritmo, ma tengo comunque duro perché tomboys don’t cry.
La conversazione coi miei nuovi amichetti non è particolarmente avvincente, e la loro tendenza al mansplaining mi irrita un po’: mi danno consigli sulla posizione in sella, mi comunicano l’altitudine, i km mancanti, mi insegnano qual è Corniglia e quale Manarola, mi dicono di mettermi i guanti prima di iniziare la discesa, mi fanno strada pure se non la sanno perché grazie al cazzo, sono di Reggio Emilia.
Ci spariamo un selfone vista mare, una bella foto di merda in cui la più vecchia sembro io.
È tutto così grottesco che alla fine è divertente. E poi, tutto sommato, se non mi avessero costretta ad accelerare il passo, probabilmente sarei tornata a casa con le tenebre.
Invece mi becco un tramonto coi controcazzi, di quelli col sole che va a finire secco nel mare, coi tempi e i colori perfetti; di quelli che fanno fermare le coppie a bordo strada a darsi i baci, a farsi le foto, a dirsi le cose d’amore.
Che mi fanno pensare che forse la dovrei smettere con ‘sta cosa dei tramonti, magari domani provare con l’alba. È che è un casino svegliarsi presto, dopo una boccia di vino rosso.