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Fase 2

Le uscite nel territorio comunale concesse anticipatamente da Toti non è che me le sia godute granché: stavo approfittando del decreto emesso da uno che fosse per me non governerebbe manco un pollaio, che ha voluto farsi figo in previsione delle prossime elezioni, alla faccia dei dati non così confortanti riguardo i contagi nella nostra regione.
Mi rendo conto che non abbia alcun senso, ma mi sentivo in colpa, come se stessi rubando l’aria.
E poi fare un giro in bicicletta all’interno del comune non è tanto diverso da correre nel raggio di duecento metri da casa: ti costringe a fare inversione di fronte a cartelli sbarrati su cigli di strade aperte, strade che non sono franate o interrotte, ma che proseguono e sai benissimo dove potrebbero portarti. Oppure a battertene il belino e andare dove vuoi a tuo rischio e pericolo. Nessun rischio e nessun pericolo, in realtà: che io sappia, non gliene è fregato un cazzo a nessuno di dove andassero i ciclisti.
Ma io c’ho sto problema che i decreti me li leggo davvero e li devo seguire alla lettera. Che devo sempre sapere di essere in regola, nel giusto, di essere stata brava, di meritare un biscotto. Perché poi se mi ferma la legge vado in ansia pure se non ho fatto niente, figuriamoci se so di aver sconfinato di cento metri. E a mentire, a inventarmi delle storie, non sono capace. Oddio, in certi casi so mentire benissimo a me stessa, che effettivamente si traduce nel mentire anche agli altri, ma lì è una roba complicata, perché devo crederci tanto da essere convinta di dire la verità.

La libertà di andare (quasi) dove si vuole, di rivedere i posti nei quali si è sognato di trovarsi in queste lunghe settimane, quando le uniche gite concesse erano quelle al supermercato, è tutta un’altra storia.
Ritrovare tutto stranissimo, diversissimo, ma stranamente normale.
Non incontrare nessuno su sentieri e strade che solitamente, in questa stagione, sono già presi d’assalto dai turisti.
Le spiagge, viste dall’alto, deserte come se le stessi guardando su Google Earth.
Ma tutto al suo posto, immutato, bellissimo, profumato, forse più verde, più rigoglioso. O forse semplicemente verde e rigoglioso quanto è normale che sia una primavera che ha fatto il suo corso anche mentre non eravamo lì a guardarla.
Lunedì, sulla panoramica delle Cinque Terre, era tutto così silenzioso, così solo mio, che mi sono fermata a uno svincolo, sono scesa dalla bici e ho passeggiato in mezzo alla strada: si sentivano solo le api ronzare intorno a quei piccoli fiori gialli che credo essere ginestre, ma non sono sicura, perché i fiori sono fra quel milione di cose di cui non so niente.
Quando sono ripartita, guardando il mare e la costa sotto di me, mi è venuto spontaneo un “ti amo” a voce alta.
Buffo, se ci penso, aver detto “ti amo” a un paesaggio, a un posto, e non ricordare quando e quanto tempo prima lo avessi detto l’ultima volta.

Oggi, che era estate, ho messo il berretto con le angurie e sono andata a trovare Montemarcello, che è fra i più stabili dei miei affetti.
Al solito punto panoramico non c’era nessuno, tranne il vecchio dei gatti, a cui mi è capitato di pensare durante la quarantena e che speravo di incontrare.
Ci siamo scambiati qualche considerazione sulla situazione, senza doverci dire “oh, ma hai visto cos’è successo?” perché deh, l’abbiam visto sì.
Mi ha detto di aver sofferto molto l’isolamento e la solitudine, e che ora che finalmente può uscire è pieno di dolori, perché è stato fermo per troppo tempo. Che il corpo ha bisogno di muoversi, di prendere il sole, di vitamina D.
E poi gli sono mancati i gatti. Soprattutto Black, la gatta nera che aveva chiamato così pensando che fosse un maschio. Che black in inglese valga pure al femminile, non glielo sono stata a dire.
Nelle ultime settimane a dar da mangiare alla Pezzata, al Selvatico e a Black ci ha pensato una signora di Ameglia, gattara certificata ai sensi di legge.
Ma se Black ora ha di nuovo un bel pelo lucido e folto è tutto merito delle cure del vecchio, che la pettina quotidianamente e le porta il nasello all’olio d’oliva di cui va matta. Sembrano parlarsi, quei due, e lei sembra anche piuttosto gelosa.
Sono congiunti, finalmente ricongiunti.

Underachievers, please try harder

Se sei un local, le Cinque Terre da maggio a ottobre te le puoi bello che scordare. A meno che tu non ci viva. Allora forse hai imparato a schivare la transumanza, hai un tuo scoglio segreto, e soprattutto non devi salire a bordo di un carro bestiame per arrivarci.
Per tutti gli altri, sono ormai una meta esclusivamente invernale.
Oggi era la giornata perfetta: sveglia presto causa sete infernale, diversi pasti da smaltire e colpe da espiare, solone, cielone bluone.
Da bambina il cielone bluone era il mio colore preferito. Lo è ancora, ma non ho capito a quale codice pantone corrisponda esattamente, perciò se me lo chiedessero dovrei rispondere che il mio colore preferito è “c’hai presente quando il cielo è serenissimo, in inverno o anche in autunno, senza nemmeno una nuvola, senza foschia, e sono tipo fra le 11 e le 15, e i contorni delle cose sono nettissimi, e l’orizzonte non finisce mai?” Per fortuna non è una domanda che ti fanno spesso, a quarant’anni.
Per andare alle Cinque Terre, di solito, scelgo la strada meno bella ma più facile, ovvero quella da Pignone. Che però è un tedio, soprattutto in questa fottutissima stagione che vi avverto, se non finisce almeno almeno entro due mesi faccio un casino.
Oggi me la sono sentita e sono passata da Volastra. Quando non le fai mai, le strade, tendi a scordarti il perché. Cioè, lo so che non passo mai da lì perché è una salita che ti prende a schiaffoni, ma non ricordavo quanto forti. E se non li prendi mai, gli schiaffoni, non è che ci sei abituatissimo.
Ma bòna, me la prendo comoda, mi faccio due discorsi a voce alta, mi stramaledico, mi incanto a guardare il panorama, e bene o male arrivo viva al bivio per Monterosso.
Scendo o non scendo? Tornare su è una bella botta, non lo faccio mai perché bla bla bla, ma checcazzo, underachiever che non sei altro, try harder.
Scendo.

La musica dei Monêtre, dalla tasca posteriore della giacca, mi accompagna lungo una risalita altrimenti troppo silenziosa; lenta, controllata, concentrata per mantenere il battito basso, per non andare in affanno. Per mantenere la calma, per non andare in paranoia.
Finché non vengo raggiunta da due tizi in e-bike, due ragazzotti sulla settantina, che mi offrono una spinta, che provo a rifiutare senza successo: il loro “perché devi fare fatica?” mi spiazza, vorrei rispondere che deh, e alora ci venivo col Liberty, ma fare sempre l’antipaticona è stancante, soprattutto se stai pedalando su una pendenza dell’11%. Quindi mi lascio portare fino al bivio per la strada panoramica, facendo in realtà il triplo della fatica, perché la spinta non è tale da compensare l’aumento di ritmo, ma tengo comunque duro perché tomboys don’t cry.
La conversazione coi miei nuovi amichetti non è particolarmente avvincente, e la loro tendenza al mansplaining mi irrita un po’: mi danno consigli sulla posizione in sella, mi comunicano l’altitudine, i km mancanti, mi insegnano qual è Corniglia e quale Manarola, mi dicono di mettermi i guanti prima di iniziare la discesa, mi fanno strada pure se non la sanno perché grazie al cazzo, sono di Reggio Emilia.
Ci spariamo un selfone vista mare, una bella foto di merda in cui la più vecchia sembro io.
È tutto così grottesco che alla fine è divertente. E poi, tutto sommato, se non mi avessero costretta ad accelerare il passo, probabilmente sarei tornata a casa con le tenebre.
Invece mi becco un tramonto coi controcazzi, di quelli col sole che va a finire secco nel mare, coi tempi e i colori perfetti; di quelli che fanno fermare le coppie a bordo strada a darsi i baci, a farsi le foto, a dirsi le cose d’amore.
Che mi fanno pensare che forse la dovrei smettere con ‘sta cosa dei tramonti, magari domani provare con l’alba. È che è un casino svegliarsi presto, dopo una boccia di vino rosso.