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Perfetto, grazie

Ho un pessimo rapporto coi parrucchieri: non mi piace la conversazione casuale con gli sconosciuti, ma anche i silenzi mi pesano, perché il mio silenzio mi fa sentire in difetto, come se dovessi soddisfare degli standard di simpatia e affabilità.
Anche limitando il dialogo allo stretto necessario, riscontro comunque problemi di comunicazione che onestamente non mi spiego. Eppure mi sembra di utilizzare un linguaggio semplice e comprensibile, seppure, a dire il vero, piuttosto tecnico.
Tipo oggi. Posto nuovo, mi fa sedere, mi lava, mi raccatto la testa dal lavabo con le mani perché ancora non li hanno inventati i lavabi da parrucchiere che non ti spezzano il collo, e mentre mi tampona con un asciugamano che sembra fatto di quella carta inutile dei tovagliolini dei bar, quelli che se ti asciughi con un foglio di domopak è uguale:
“Come glieli taglio?”
“Alora, intanto mi toglie sto papagnone qua dietro e per favore mi fa sparire sto effetto broccolone. Poi mi sistema la lanacchia sul collo e mi leva sta coda di rondine”.
Annuisce, ma il suo sguardo è perplesso e le sue mosse incerte.
“Come le sembra?”
“Perfetto, grazie”.
Rispondo sempre così, perché mi vergogno e un po’ mi dispiace dire che no, non mi piace per niente. E me lo porto a casa, quel taglio di merda.
Ogni maledetta volta.

Jessie Sala

Un paio di settimane fa, passeggiando nel bosco, ho notato questo ramo adagiato tra le foglie secche e mi è parso chiaro che fosse un mitra. L’ho raccolto, l’ho imbracciato e ho mimato una raffica di spari, poi mi sono ricordata di avere quarantuno anni, mi sono sentita idiota e l’ho gettato a terra, abbandonandolo lì dove l’avevo trovato.
Questo lunedì, correndo sullo stesso sentiero, ho poggiato malissimo un piede e ho preso una storta atomica a una caviglia: un rumore molto poco rassicurante e poi giù per terra come un sacco. Un male porco. Sono rimasta lì a lamentarmi per un tempo indefinito, come Peter in quella puntata dei Griffin in cui cade e si fa male a un ginocchio.
Poi mi sono di nuovo ricordata che maledizione ho quarantuno anni, e quindi mi sono detta che belin, dai, è una storta, datti un contegno. Ma dal momento che di stare in piedi non c’era verso, mi sono guardata intorno in cerca di un bastone della mia vecchiaia e dopo averne scartati due o tre, ho ritrovato lui: il mitra. E ho scoperto che non era un mitra, ma una stampella costruita su misura per me: l’altezza giusta, l’impugnatura posta alla distanza perfetta. Tanto provvidenziale quanto inquietante.
Mentre arrancavo verso la mia auto sorretta da quella gruccia di fortuna, mi sentivo come in uno di quei film il cui protagonista è un intrepido e scaltro eroe che braccato, disperso e ferito deve trovare la via della salvezza contando soltanto sulle proprie forze e il proprio ingegno.
Guidare con la caviglia destra rotta – ho scoperto – non è semplicissimo. Certo, avrei potuto lasciare l’auto al Parodi e chiamare l’aiuto da casa, ma il protagonista del film di cui sopra, maledetto lui, non l’avrebbe mai fatto.

Nella sala d’attesa del Pronto Soccorso di Spezia sembra di stare in un ambulatorio veterinario di quelli lerci, dove “tanto son bestie, le bestie son sporche”.
Aria maleodorante, sedie scrostate e arrugginite, porte cigolanti, tabelloni non funzionanti, tempi di attesa impronosticabili. Gente che è lì dal pomeriggio e ancora non sa di che morte morire. Una donna in sedia a rotelle, in stato di semi-incoscienza, viene rilasciata con addosso solo le calze e un camice trasparente; quando il suo accompagnatore chiede sbigottito dove siano i suoi vestiti, gli viene risposto che “eeehhh, a me me l’hanno data così”.
Finalmente mi chiamano per fare i raggi e penso dai, forse me la sfango prima del previsto.
Dopo i raggi mi rispediscono in sala d’attesa e passa un’ora e mezza prima che vengano ad informarmi che mi avrebbero portata in sala gessi. Sala gessi a me fa sempre ridere, perché penso a un italo-americano che si chiama Jessie Sala; però me lo tengo per me perché non riderebbe nessuno e mi sentirei di nuovo scema come quando giocavo col mitra nel bosco.
Da Jessie Sala mi ci porta un ragazzotto gentile con una cariola sgangherata che non c’ha manco gli appoggi per i piedi, e quindi devo tenerli per aria mentre attraversiamo i giardini dell’ospedale, che ogni volta mi chiedo chi stracacchio l’ha progettato sto ospedale idiota coi padiglioni buttati uno qua e uno là, che per andare da uno all’altro devi pure pigliarti del freddo.
L’infermiere Jessie Sala mi fa un’esaustiva lezione sull’anatomia del piede per aiutarmi a comprendere la mia situazione clinica, mentre con pacata meticolosità taglia i miei jeans lungo la cucitura. “Per evitare di buttarli”, dice; “tanto fanno cagare”, dico.

A casa ci arriviamo all’una di notte.
Prima di deciderci ad andare al Pronto Soccorso, rassegnandoci al fatto che la mia caviglia non potesse aspettare fino al giorno seguente, avevamo ordinato un quantitativo di cibo tale che nel sacchetto erano stati messi quattro biscotti della fortuna e quattro paia di bacchette, malgrado fossimo in due.
Ne ho ancora una parte in frigo, a fare i bighi.
Il mitra è nell’ingresso, vicino alla porta. Farà i bighi anche lui, ma è evidente che fosse destinato a venire a casa con me.

Stasera cinese?

E poi, capito, parcheggio la macchina e resto seduta lì, coi fari spenti, una mano sul volante e l’altra sulla chiave, e tutte le faccende a cui ho evitato di pensare durante il giorno mi tornano su come come quando mangi cinese e ordini ottocento cose perché costa tutto un cazzo, e ti ci sfondi anche se fa tutto cagare, ma ovviamente ti si pianta fra lo stomaco e la gola e passi una nottata di merda a stramaledire la Cina e tutti i cinesi, riproponendoti di non ordinare mai più il loro stupido cibo, ma poi dopo una settimana “stasera cinese?” e non sai dire di no.
Tutte insieme, tornano su. Dallo stomaco, attraverso la gola, diventano un grido.
Tutte insieme, porca puttana. Proiettate sul vetro dell’auto come un film angosciante e di cui non afferro del tutto la trama.

Scomparire

Ho sognato di buttarmi giù dal Muzzerone.
No, non l’ho sognato, l’ho immaginato. Seduta sul mio letto, sveglia e lucida, con gli occhi fissi sulla parete troppo alta e troppo bianca di fronte a me, l’ho visto accadere, l’ho vissuto.
Gridavo, ripetevo “no, no, no!”, ma erano grida silenziose perché non avevo voce, mi mancava il respiro, piangevo, guardavo sotto di me e vedevo il mare e le rocce avvicinarsi alla stessa velocità a cui il mio cuore batteva. Negli occhi, mi batteva. Nelle orecchie, nello stomaco, nelle mani e nelle vene, mentre mi dimenavo con gambe e braccia come se cercassi di tornare indietro aggrappandomi all’aria, scalandola.
È durato un’eternità, e ho capito che io non voglio morire.
A volte però vorrei scomparire. Come certi personaggi secondari di certi telefilm, che da un giorno all’altro non si vedono più, così, senza alcuna spiegazione, e nessuno si chiede che fine abbiano fatto, come se non fossero mai esistiti.
Ecco, io a volte vorrei non essere mai esistita. Non solo cessare di esistere nel presente, ma anche nel passato, nei ricordi e nella storia delle persone che conosco e ho conosciuto. Cancellata, non dimenticata. Essere dimenticati è orribile, significa non aver contato abbastanza, non aver dato o fatto abbastanza, nel bene o nel male essere stati superflui, sostituibili. Sparire no, la sparizione deresponsabilizza.
Sì, è la responsabilità che mi pesa. Di quello che sono, di quello che sono per gli altri, o che vorrei essere, o che loro vorrebbero che fossi, o che io credo che loro vorrebbero che fossi, di come vorrei mi ricordassero e di come invece temo di farmi ricordare.
La responsabilità di ciò che faccio, di come ogni azione inneschi una reazione a catena che lo so, lo so che è lo stesso meccanismo per cui succedono anche le cose belle e le cose buone, ma come si fa? Come si fa a sostenerla quella responsabilità lì, che c’ho l’ansia pure a pulire i cessi, perché potrei intasarli facendoci cadere dentro il cellulare, il dentifricio, i miei sogni, le mie speranze, le mie giornate?

Ferite

Ho una piccola ferita sulla pelle, da settimane, forse una puntura di zanzara.
Ogni giorno la cerco, la accarezzo, ne valuto dimensioni, rilievo e consistenza.
Poi cerco un ingresso, una scucitura, un punto debole.
Gratto i bordi, affondo l’unghia nella pelle, scalzo con cautela la crosta e la strappo senza fretta, cercando di non far uscire sangue.
Ma continuo a fallire, a sanguinare.
Aspetto che si riformi la crosta e poi torno a tormentarla, rischiando di infettare la ferita.
Le dimensioni della cicatrice aumentano, e io non trovo pace finché non l’ho vinta su quella crosta.
Dovrei aspettare che cada da sola, o che si riduca al punto da scomparire, ma è più forte di me: torno sempre lì.
Il mio pensiero, torna sempre lì.
Al mattino, appena sveglia.
Mentre guardo un film distrattamente.
Sdraiata al sole con gli occhi chiusi.
Le mie dita, tornano sempre lì.

Mezz’ora

Ho perso di nuovo l’auto e non ho la minima idea di dove potrei averla parcheggiata.
Ho un’app apposta sul cellulare per ricordarmelo, ma dimentico sempre di utilizzarla, oppure mi dico “va bé, ma è qui, non posso scordarlo”. E invece posso, oh sì che posso. Ogni stramaledetta volta.
Setaccio una ad una tutte le vie della zona: Viale Garibaldi, Via Roma, Via Napoli, di nuovo Garibaldi, Torino, Bixio. Niente.
Mezz’ora, ci ho perso. Roba che se avessi dovuto andare da qualche parte di serio, ci sarei arrivata mai più.
In mezz’ora fai a tempo a scordartelo, dove dovevi andare. Come quando ti alzi dal divano e fili dritto verso la camera da letto e poi ti inchiodi in mezzo alla stanza come un coglione, senza avere idea del perché ti trovi lì e ricordando a malapena come ci sei arrivato. Ma lì la questione non è il tempo che è passato da quando ti sei alzato, ma quello trascorso da quando sei nato.
In mezz’ora mi bevo due birre medie, se è una di quelle giornate che lo richiedono.
Mezz’ora mi ci vuole per pulire una stanza all’affittacamere della vecchia, per cinque euro neri come sto cielo gonfio di rabbia.
In mezz’ora ci vai da Spezia a Lerici in bicicletta.
Cammini tre chilometri a passo svelto, in mezz’ora.
In mezz’ora ti prendi un caffè con la tipa che ti piace e decidi che quel caffè vorresti diventasse un aperitivo, una cena, una notte.
In mezz’ora te la scordi, quella notte, se non è stata un granché.
Se invece lo è stata, son cazzi, altroché.

Chilometri

Parcheggio al Telegrafo al solito posto e mi incammino verso l’inizio del percorso che sono solita fare: 800 metri di sterrato, ritorno al punto di partenza, 1 km di saliscendi su strada in direzione Sant’Antonio, ritorno passando dal bosco, di nuovo lo sterrato di prima fino a tornare all’auto, per un totale di circa 5km di corsa.
Mi piace conoscere le distanze esatte, sapere in ogni momento quanta strada ho fatto e quanta me ne manca e poter regolare il passo di conseguenza. Avere costantemente la stima di quanto mi separi dalla salvezza, nel caso incontrassi un animale ferocissimo, o un pazzo col fucile carichissimo, o scoppiasse un temporale fortissimo, oppure il mio cuore.
Sapere quali tratti aggiungere nel caso volessi aumentare la distanza di un determinato numero di chilometri (difficilmente più di due).
Cinque chilometri sono la mia comfort zone: un dignitoso minimo sindacale.
Stavolta decido di fare il percorso al contrario, ma dopo il primo chilometro di asfalto mi piglia di andarmi ad infrattare sulla sterrata che porta a Campiglia, che di solito percorro in bici e di cui ho memorizzato una lunghezza di circa tre chilometri. Se la faccio tutta, finisce che mi ciocco un totale di otto chilometri, me deh, pffff, cosa vuoi che sia.
Mentre affronto il primo tratto in salita, che ricordavo molto meno duro, avverto già un vago desiderio di morte e penso che forse andrei più veloce se mi rassegnassi a camminare. Ma non desisto e proseguo, finché la salita non diventa discesa, a tratti piuttosto ripida.
Non ho né la tecnica né le scarpe adatte per correre in discesa sul ghiaino e devo sembrare abbastanza ridicola. Se non avessi lasciato il telefono in macchina mi farei un video.
Arrivo a Campiglia esaltata ma schioppata. Quattro chilometri, di cui metà in discesa, e bona, ciao, sono morta. E adè?
Mi fermo a guardare il panorama. No: fingo di fermarmi a guardare il panorama.
Faccio abbassare un po’ i battiti, poi mi faccio forza e riparto, ma quella che prima era una discesa piuttosto ripida ora è un cazzo di muro. Quindi mi arrendo e cammino, e camminando mi viene freddo, e penso eccolo lì, adè mi viene il raffreddore, e sono tempi di merda per averci il raffreddore, e io non mi ci voglio svegliare l’otto settembre col raffreddore, che ce n’ho già abbastanza di rogne quel giorno lì.
Quando la salita si addolcisce un po’, riaccenno una corsa, ma una fitta al fianco destro mi costringe ad abbandonare l’idea. Cosa m’è venuto in mente di mangiare la crostata mezz’ora prima di uscire? Ma soprattutto, ancora una volta, cosa m’è venuto in mente di correre?
Mancano due chilometri e c’ho la maglia ghiacciata.
Dai, due chilometri son come andare dai Pescatori al faro e tornare ‘ndré.
Starnutisco di nascosto a un gruppo di escursionisti. Manca un chilometro.
Ai miei ospiti che chiedevano dove parcheggiare l’auto dicevo che potevano farlo gratuitamente a solo un chilometro da casa: certi rinunciavano a prenotare, alcuni preferivano pagare 10€ al giorno, i più si accontentavano.
Io, intanto, sono salva.
È importante conoscere le distanze esatte.
Sono importanti, i chilometri.

C’ho in testa una canzone

– Framura –
C’ho in testa una canzone.
La canticchio, ribadisco il ritornello, in silenzio, sotto la mascherina, nella mia testa, sparo acuti che ciao.
– Bonassola –
C’ho in testa una canzone, e mica ci faccio caso a quale.
– Levanto –
Merda.
C’ho in testa una canzone e non vorrei ma non c’è verso. Non la copre il rumore del treno, né la musica da discoteca proveniente dal vagone accanto, né le chiacchiere dell’uomo borioso che va a caccia di non so che cazzo di marmi non so dove cazzo,
– Monterosso –
della tizia che vuole andare ad Alassio fortissimo, tanto da ripeterlo al fidanzato decine di volte, che alla fine ci viene fuori un’altra canzone, che però non copre la canzone di prima: “voglio andare ad Alassio – ho trovato un marmo che bla bla bla nel fondo di un fiume – voglio andare ad Alassio – e bla bla bla – voglio andare Alassio”, e sotto sta musica che tunz tunz tunz, ma che poi che minchia c’è ad Alassio?
– Vernazza –
C’ho in testa una canzone e ti ricordi quella volta che
– Corniglia –
era il mio compleanno, eravamo qui, nessuno voleva starci ma era il mio compleanno e
– Manarola –
Possiamo scendere qui e ubriacarci tantissimo?
– Riomaggiore –
Possiamo scendere qui come quando stavo malissimo e ho detto “Dio ti prego dammi un segno qualsiasi” e ho visto quella tipa là che mi ha fatto dire “oh, Dio, certo che ci sai fare quando ti ci metti eh”?
– Spezia –
C’ho in testa una canzone, e non la coprono le birre, né le ore che passano, né il tramonto, né la lava via la doccia, né me la scordo col sonno, sta canzone maledettissima, che se potessi gliela farei cantare altre diecimila volte, nel mio letto, blu come la tristezza.

Io li capisco

Io li capisco quelli che non vogliono più vivere. È una cazzo di fatica, vivere.
È come se ti dicessero: la vedi quella montagna là? Quella altissima e ripidissima che per arrivarci in cima ci sono duemila sentieri sbranati dai rovi, e scalinate di massi rotti, che se non c’hai un falcino, una bussola e una torcia ci sta che ti perdi e non ti trovano più manco con l’elisoccorso? Vai, mettiti sto par de zavatte e incamminati.
Però poi da là sopra c’è una vista, ma una vista che porca puttana eh.
Eh sì, ho capì, però è anche ‘n atimo che guardi giù e ti sfracelli.

Io li capisco quelli che rifuggono l’amore.
L’amore è una roba che se non te n’avessero mai parlato penseresti di averci un brutto male, tipo una grave cardiopatia, un tumore allo stomaco, un disturbo neurologico, una seria insufficienza respiratoria.
Verrebbe da dire che chi cazzo te lo fa fare, un po’ come guardare i film di paura: ma perché devo andarmela a cercare, la sensazione di paura, che è una sensazione di merda?
Però è anche come andare al Muzzerone, che c’è una vista, ma una vista che porca puttana eh.
Eh sì, ho capì, però è anche ‘n atimo che guardi giù e ti sfracelli.

Lavatrici per coscienze sporche

Ieri mentre contemplavo quest’installazione artistica, cercando di dare un senso alla presenza di una lavatrice sul Parodi (toh, almeno so dove appoggiare la bici mentre mi metto il giacchetto), mi si è avvicinato un tizio a piedi, che dalla faccia sdegnata per un attimo ho pensato che credesse ce l’avessi portata io, lì, quella lavatrice. In bici, comodamente, caricandomela in groppa.
Se solitamente sono restia alle interazioni con gli altri esseri umani, ci sono circostanze in cui mi vengono stranamente naturali, come quando sono da sola in cima a un monte. Vai a sapere, sarà una specie di sentimento di solidarietà fra amanti dell’aria aperta. Chissà con quanti ho scambiato amabili chiacchiere in mezzo al nulla, per poi magari insultarci nel traffico cittadino da dentro le nostre auto, resi irriconoscibili dal cambio di scenografia, di outfit e di umore.
Mentre il tizio mi parlava, sprovvisto come me di mascherina, misuravo a occhio la distanza fra la sua faccia e la mia, e un allarme mi suonava nella testa: attenzione, attenzione, 99 centimetri, pericolo, indietreggiare. Ma quanto è scortese indietreggiare mentre uno ti parla? Tanto quanto non fare neanche una carezza alla sua cana buffa, vaporosa e sorridente, che mi annusava la mano, perché oddio, sei pazza? Non potrai lavarti le mani mai più, poi ti tocchi la faccia e muori!
Oh, mi sono sentita una persona orrenda. Mentre quelli che smollano gli elettrodomestici per strada me li immagino: contano i tornanti, individuano il punto esatto, tirano il freno a mano, si guardano intorno, scaricano affannosamente il rifiuto ingombrante e ripartono sgasando nel silenzio della notte. Soddisfatti e leggeri come dopo aver fatto una cacata epica.
E il pensiero di essere persone orrende non li sfiora, manco per un minuto, manco per il cazzo.