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Mare

Non capisco quelli che al mare ombrellone, lettino, cappello sulla faccia, spruzzino per star freschi, al bar ogni mezz’ora, doccia dopo il bagno, oimeo che caldo, oimeo si muore, oimeo si stava meglio a ca’.
Io al mare sono un tomino alla griglia, sono grasso che cola.
Mi piace sentire la pelle bruciare, il leggero solletico provocato dalle gocce di sudore mentre scendono lungo il corpo, tuffare il dito nella pozza che si crea nell’ombelico.
Il segno dei sassi sulla pancia, la ricerca dello scoglio perfetto, modellare la sabbia perché si adatti alle mie forme.
Mi piace immergere in acqua le punte delle dita e poi piano piano tutta la mano e sentirla sgonfiarsi lentamente.
Raggiungere una temperatura corporea tale che quando entro in mare immagino alzarsi una nube di fumo come quando lavi una padella appena tolta dal fuoco; cambiare colore da rosso a blu come nei cartoni animati.
Mi piace il sale sulla pelle, sotto ai vestiti,
mi piacciono i capelli sconvolti ma definiti.
Mi piace perdere quantitativi considerevoli di liquidi e reintegrarli a fine giornata con l’equivalente in birra. O in vino bianco. O in bruschette al pomodoro.

La mattina

La mattina sa di zucchero a velo
su soffritti digeriti male

Sa di chiuso
di lenzuola umide
del vomito del gatto
sul tappeto della cucina.

La mattina sa di grasso di catena
su polpacci depilati in fretta

Sa di rabbia
di vento negli occhi
di colpi di grancassa
sotto la maglia sudata.

La mattina sa di fiori morti
nei bidoni dei cimiteri

Sa di incertezza
di lacrime secche
dei baci appena sveglie
che non ci diamo più.

Mare mosso

Quelli che il mare mosso l’affrontano a testa alta, camminandogli incontro con passo marziale, senza indugio e senza paura, fieri come si va verso una morte da eroi.
Quelli che aspettano l’onda più alta per tuffarcisi dentro come squali, riemergere mezzo chilometro più avanti e nuotare verso la riva con la foga di un labrador che insegue un legnetto.
Quelli che ci si immergono fino alla vita, inamovibili e saldi come querce, appigli per bambini rotanti, inetti incespicanti, belinoni a gattoni.
Quelli che tergiversano sul bagnasciuga, mani sui reni, sguardo contratto, incapaci di trovare un minimo di stabilità: un passetto avanti e due indietro.
Quelli che entrano di schiena, sperando che qualche dio gliela mandi buona.
Quelli che entrano di lato, illudendosi di fendere le onde e uscirne asciutti e illesi.
Quelli come me, che lo affrontano col disagio e la rassegnazione di chi si trova a dover fronteggiare un brutto ceffo che lo vuole strattonare, soffocare e prendere a schiaffoni.

Invasori

Ci rubano il posto in spiaggia, il parcheggio, l’ultimo pezzo di focaccia, il tavolo alla sagra del muscolo.
Ci rubano il mare, i panorami, i tramonti, gli hashtag su Instagram.
Ci rubano settembre nei giorni feriali.

Niccolò ha 5 anni ed è di Modena, ma passa tutte le estati a Bonassola.
Sua mamma è incinta di un bimbo che nascerà quando lui avrà 18 anni e la Ferrari che gli ha promesso papà.
Niccolò è un invasore.

Al bar di Montaretto ci sono solo vecchi. Smettono di parlare quando mi vedono arrivare, non so se straniti, incuriositi o indispettiti dalla presenza di qualcuno che non conoscono.
Sono un invasore.
Poso la bici, ordino un succo orrendo, mi siedo due tavoli più in là e finalmente riprendono a chiacchierare.
A Montaretto, frazione di Bonassola, provincia della Spezia, parlano più genovese che spezzino.
Il genovese suona un po’ come il portoghese, ma con meno saudade e più cinismo.
Se non ho capito male, la signora coi capelli color 5 centesimi deve assolutamente andare dalla parrucchiera, ma sarà un’impresa perché bisogna prendere l’autobus, son tutte curve e l’ultima volta si è sentita malissimo.

C’ho sonno

Spengo tutto alle 22:36.
I ristoranti sotto casa sono pieni e chiassosi. Mi addormento comunque, ma mi risveglia il camioncino della spazzatura. Non guardo l’ora, sarà mezzanotte, mezzanotte e mezzo.
I camerieri riordinano i locali, impilano tavoli e sedie, si battibeccano sui turni e su chi deve fare cosa, si fanno battute, ridacchiano, gridacchiano. Sento solo voci maschili.
Una comitiva di ragazzi, o di uomini – a orecchio ne conto una decina – si ferma a parlare sotto la mia finestra di chissà cosa, in una lingua e un tono che non riconosco. Si danno delle pacche, non capisco se ridono o litigano, o entrambe le cose. Credo sia l’una passata.
Il transito di persone è intermittente ma costante. Tutti maschi, a gruppi. Le loro voci sguaiate e disordinate si fanno più vicine per poi dissolversi in lontananza. Parlano dello Spezia, di quanto era sbronzo Coso, di cos’ha detto la Cosa a uno di loro. Vorrei saperne di più. Chissà poi dove l’hanno trovata, una signorina, in questa serata che ne sembra priva.
Ogni tanto una bici, un monopattino.
Poi una voce femminile, la prima. Saranno le tre. È con uno. Gli sta dicendo quanto sia difficile trovare uomini con le palle, come lui. “Palle molto grosse”, sottolinea fiero e malizioso il ganzo. Poi credo azzardi una mossa verso la tipa, perché la sento respingerlo. Ma anche questa storia si dissolve in lontananza, senza che ne possa conoscere il finale.
Forse mi addormento alle quattro.
Alle sette la pulizia delle strade. Poi le saracinesche, i trolley, i buongiorno, i “deh, alóa, com’è?”, i trapani, i bambini, la musica dominicana, karaoke guantanamera, i tavoli disimpilati, le liti dei vicini.
C’ho sonno.

Dove sei

I talloni.
Le ciabatte.
Le vite alte.
I polpacci stretti, pelosi, biondi,
abbronzati.
I talloni secchi, spanati, squadrati.
Le caviglie gonfie.
Le ritenzioni idriche.
Le carni bianchicce,
mollicce, venate di blu.
I ventenni vestiti uguali.
I trentenni vestiti da ventenni.
I quarantenni coi figli piccoli.
I vecchi coi figli piccoli dei figli quarantenni.
Le sere lunghe.
Le notti infinite.
Le biciclette sgangherate.
I monopattini.
I trolley.
La sveglia.
Non oggi.
No.

I cinque alti alle piante,
ai portoni,
alle saracinesche.
Cammino scomposta,
non piego le ginocchia.
Costruiscono strade sotto i miei passi.
Città sotto il mio naso.
Castelli nei miei polmoni,
che mi ostruiscono il respiro,
la vista,
il senso dell’orientamento.
Ho sete.
Dove sei.
Srotolano strade sotto i miei passi.
Casa mia scivola via,
alla Scorza,
alla Chiappa,
a Riccò del cazzo di Golfo.
Casa mia.
Dove sei.

Il panico, il vomito,
e Carlo
con quel suo cazzo di ombrellino
piantato in mezzo al petto.