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Paura di cadere

Ci trova in piedi in mezzo alla sterrata che porta alla vetta della Castellana, intenti ad architettare una scenografia che renda giustizia fotografica a quei centottanta gradi di panorama a cui sembra non mancare niente. A volte immagino che un giorno ci svegliamo, guardiamo verso il mare da Lerici, da Tellaro, da Marina di Massa, da diocristo Fosdinovo, e la Palmaria non c’é più: ci sono il Tino, il Tinetto, la punta di Portovenere con San Pietro, e nel mezzo nulla. Sparita, affondata, sgretolata, confiscata da un governo ladro. “Ma te lo immagini sto panorama senza la Palmaria?”
Michele non sembra particolarmente preoccupato da questa eventualità. Sta ispezionando l’ambiente circostante in cerca di supporti affidabili per le nostre biciclette: rami, massi, pile di sassi. Mentre io mi accontento di un equilibrio precario e fugace, lui sembra ricercare un’inalterabile stabilità: valuta l’irregolarità del suolo, la cedevolezza del terreno, la direzione dei venti, la compatibilità delle pietre raccolte al fine di creare costruzioni efficaci e capaci di resistere a un terremoto.
Mentre gli spiego che il segreto per trovare un buon equilibrio è quello di non aver paura di cadere, la mia bici rovina prevedibilmente a terra, procurandosi l’ennesima cicatrice.
“Lo fa sempre, sta scema”, dico al ciclista che si avvicina allarmato come
se non avesse visto un grosso pezzo di alluminio cadere, ma una persona svenire e battere pericolosamente la testa.
Ci trova così, dunque, sto tizio dall’inesauribile voglia di chiacchiere.
Parla un toscano che alle mie orecchie suona come una sconclusionata accozzaglia di vocali, tanto che devo chiedergli più volte di ripetere le frasi, e finisco comunque per annuire fingendo di aver capito. Annuire, abbozzare un sorriso da Gioconda e distogliere immediatamente lo sguardo: questa é la tecnica che mi ha permesso di spacciarmi per quasi 43 anni per un essere umano senziente.
Dice che la sua, di bici, è tutta fatta su misura: c’ha un motore della Madonna, due batterie con un’autonomia di trecento chilometri e un set di ruote che vengono prodotte soltanto in Svizzera. C’ha un monocorona che però è come se ce n’avesse tre, di corone, o almeno è quello che capisco io mentre ci stordisce con una sassaiola di vocali e termini tecnici cercando di spiegarci l’ingegnoso funzionamento del cambio.
Annuire, abbozzare un sorriso da Gioconda e distogliere lo sguardo.
Ci racconta dov’è stato, dove andrà, quante ore al giorno passa in sella, quanto spende per i vestiti. Non ci risparmia un pippone sull’efficienza dei pedali a sgancio rapido, notando che noi usiamo quelli liberi. Ci mostra le scarpette dicendo che ne ha un paio per ogni stagione, che ha sbagliato a mettere quelle, oggi, perché ha caldo. Gli suggerisco di farsi innestare le tacchette direttamente nelle piante piedi, ma non coglie la battuta e risponde che no, per l’estate c’ha i sandali.
Detto tutto quello che aveva voglia di dire, riaggancia finalmente le suole ai pedali e riparte. Lo ribecchiamo pochi minuti dopo, due tornanti più avanti, impegnato in una discesa lenta e cauta.
Mi prodigo allora in un sorpasso arrogante perché deh, te ti cioccherai anche trecento chilometri al giorno con quella motoretta lì, ma in discesa ti faccio il culo. Il segreto per vincere in discesa, del resto, è non aver paura di cadere.
Merda.

L’acqua magica

– Quest’acqua è magica – mi dice quando mi avvicino alla fontana per riempire la borraccia. Sta seduto a prendere ombra su una panchina lì a fianco: ciabatte di plastica, bragoni chiari poco sotto il ginocchio, camicia celeste aperta su una canotta bianca. Non molto diverso dal mio outfit estivo, se non fosse per le ciabatte, che non uso volentieri perché mi stanno malissimo e mi fanno sentire una signorottona che va in Piazza del Mercato a comprare il tonno. Se state pensando che anche sembrare un vecchio che boccheggia su una panchina non sia un’ambizione degna di una giovanotta di quasi quarantadue anni, lasciatemi dissentire.
– Addirittura? – gli dico.
– Eh sì eh! Podenzana c’ha quasi vinto due campionati del mondo.
“In che senso? Fanno i campionati del mondo dell’acqua?” vorrei rispondere, ma per fortuna non faccio in tempo perché, forse notando il mio sguardo confuso, sente il bisogno di accertarsi:
– Conosce Podenzana, vero?
– Sì, sì, certo! – rispondo, anche se in realtà per me Podenzana è un posto dove si mangiano i panigacci buoni.
– Eh, lui si allenava sempre qui e beveva da questa fontana. Acqua magica!
– Ah, ma per me mi sa che non basta l’acqua magica.
– Perché, non ce la fa?
“A fare cosa?”, vorrei dire. Ma di nuovo mi fermo in tempo.
– Lei è professionista? – insiste.
– See, io sono una cialtrona!
– Cos’è?
– Una cialtrona! – Ripeto, ostentando un sorrisone.
Gira le spalle quasi deluso, alza le braccia mimando un cavatappi e si allontana lentamente, sospirando:
– Non si può essere tutti campioni.
Eh no, non si può. C’è bisogno di perdenti, perché esistano i campioni.
L’acqua magica, comunque, sapeva di ferraglia, e a me è rimasta solo una gran voglia di panigacci.

Buffalo Bill

Ho dato il mio primo bacio nel 93.
Nel 93 c’avevo i baffi e mi chiamavano Buffalo Bill.
Nel quartiere spopolavano due fantetti: uno fighissimo, irraggiungibile, che andava con le baby strappone straniere, cioè tipo della Chiappa o di Piazza Brin, e l’altro piccoletto ma spigliato, sicuro e con la faccia furbetta da marachelle e un caschetto di capelli morbidissimi e lustrissimi: eravamo tutte pazze di lui, tanto da litigarcelo, letteralmente. Ma roba di botte, eh.
Tutte eravamo io, la ragazzina col nome calabrese che ora si fa chiamare col secondo nome un po’ meno calabrese – ma tanto è inutile perché glielo leggi in faccia che si chiama con quell’altro nome là – e un’altra ragazzina che era la più piccola di tutte, ma c’aveva una malizia che noi scoregione ce la sognavamo. E poi era bionda. Senza labbra, ma pur sempre bionda.
Secondo me la bionda senza labbra gli ha cioccato anche un po’ di susina, poi, più avanti. Di sicuro è stata la prima a limonarselo, il piccoletto.
A me, lui, ricordo che disse: “io mi ci metto anche con te, però beciamo”. E allora avevamo beciato. Sapeva di sigarette e cingomme alla menta.
È invecchiato malissimo, quel ragazzetto: brutto, bolso, mal vestito e mezzo scemo.
La tizia col nome calabrese, invece, c’ha due figli che sogna di veder giocare in serie A.
Il fighissimo irraggiungibile è pelato e non più fighissimo e credo che di figli ne abbia una caterva.
La bionda chissà.
A me piacciono le signorine.
Nel 93 non lo sapevo mica, che mi piacevano le signorine.
Per un periodo era comparsa nel quartiere una ragazza più grande, che passava molto tempo con noi; poi cominciò a girare la voce che fosse lesbica e smise di farsi vedere. O almeno, io non ricordo che fine fece. So solo che quando ci penso, ora, mi sento una grandissima merda per aver dato retta a chi aveva visto in lei un pericolo o un qualcosa di schifoso.
Quando ci penso, ora, mi chiedo se forse, in fondo, non lo sapessi già che mi piacevano le signorine. Perché le fobie, alla fine, è un po’ così che funzionano.

Resistenza

Stamattina sono andata a correre.
Rimanendo in quei duecento metri di merda da casa, creando un solco nella pavimentazione tale da accelerarne sensibilmente l’erosione, sotto gli occhi vigili dei Vigili, mi sento ogni volta come Piper Chapman nel cortile di Litchfield.
Sì, lo so che non siamo davvero in galera e che so un cazzo dell’inferno che è la galera (come del resto le tizie di Orange Is The New Black). E già che ci sono: sì, lo so che non siamo in guerra, e so un cazzo dell’inferno che è la guerra. Del resto pure chi sta in guerra e in galera sa un cazzo dell’Inferno.
Stamattina sono andata a correre e per la prima volta non ho incontrato nessun delatore, non ho incrociato nessuno sguardo di disapprovazione. Non che mi sia dispiaciuto, ma ho avuto la sensazione che fossimo tutti diventati pratici, abituati. E l’abitudine non è adattamento, come va tanto sbandierare di ‘sti tempi, come se fosse un superpotere dell’essere umano. L’abitudine è rassegnazione. Ci stiamo rassegnando.

A pranzo mi sono bevuta due spritz e durante il giorno ho fatto secca una bottiglia di vino rosso, ho ascoltato quelle quindici volte Bella Ciao e ho ballato i Modena City Ramblers come manco nel duemila.
Cioè, veramente manco nel duemila. Chi cazzo ha mai ballato in pubblico.
In effetti non ho mai ballato tanto quanto in questa quarantena.

Dopo cena sono andata a buttare la spazzatura e c’era una temperatura perfetta, un’aria fantastica, un profumo di fiori che mi chiedo perché non mi abbia fatto starnutire.
In giro nessuno, tranne i rider delle pizzerie e i padroni dei cani brutti, perché quelli che c’hanno i cani belli a quanto pare preferiscono sfoggiarli di giorno.
Sono andata a vedere se c’era ancora la macchina: c’era.
Sono andata a vedere se c’era ancora lo scooter: c’era.
Sono tornata alla macchina per vedere se la pioggia aveva lavato la merda di piccione: no.
Sono andata in Piazza Saint Bon a sentire se il profumo di fiori veniva da lì: sì.
Insomma, ho ripercorso gli stessi solchi tracciati al mattino correndo, per venti o forse trenta minuti, sentendomi sia benissimo che una fuorilegge, col terrore che ogni auto fosse quella degli sbirri manco stessi spacciando eroina fuori dalle scuole, respirando forte, guardando nelle finestre dei palazzi, notando le travi di legno nei soffitti, le diverse tonalità di luce, di vernice, i diversi accenti, le diverse lingue provenienti da ogni appartamento.
È rassicurante quando le strade sono vuote ma le case sono vive. Mi sembra che tutti veglino su di me. Che idiozia.
Poi ho pianto. Di fronte al confine invisibile dei duecento metri, invisibile e impalpabile, ma comunque invalicabile, come un muro magnetico o elettrificato, ho pianto.
Ho camminato per un altro po’ piangendo.
Ho incrociato un altro paio di padroni di cani brutti.
Incredibile ‘sta cosa che ci sia un orario per i cani brutti.
Dio quanto li amo, i cani brutti.

Quando si potevano varcare i confini regionali

Quando un ligure varca i confini regionali e cerca una focaccia decente per placare la fame e la nostalgia, trova solo delle gran delusioni e gli gira il belino perché dai, cos’è stammerda, piuttosto mi mangiavo un pacchetto di Rodeo. Però allo stesso tempo gli scatta l’orgoglio campanilistico e si gasa, perché deh, aloa, la fugassa, me chì, me là… anche se lui non sa manco accendere il forno.
Quindi va bene se sei a Fidenza o a Casalpusterlengo e al posto della focaccia ti rifilano un panaccio alto, asciutto e intriso di strutto. Ma non a Spezia. A Cadimare. A San Terenzo. A Monterosso. Al Canaletto. No, è inaccettabile. Perché la focaccia, se sei spezzino, se sei ligure, è una roba importante, almeno quanto il mare. E nella focaccia, razza di criminali, ci va lo stramaledetto olio.

“Fiato”

Non starò qui a raccontare del perché ho iniziato ad andare in bici, di come la fine di una relazione mi avesse ridotta ad un’adolescente appena abbandonata dal tipetto con cui limonava da due settimane, che passa le giornate a disperarsi in cameretta ascoltando canzoni tristone e rileggendo i messaggi su WhatsApp, incapace di credere a chiunque provi a dirle che ne uscirà viva.
Non lo racconterò perché sarebbe tedioso anche per il più sfegatato dei fan di Cioè o di Ambra Angiolini ai tempi di Non è la Rai, ma anche perché io di anni ne avevo 34, e a 34, raga, c’è gente che gli adolescenti ce li ha come figli.
Perciò dirò solo che, citando un pezzo dei Do Nascimiento, “in certi giorni è solo la bici a darmi tregua”.

Il bello di lasciarsi in primavera e vivere in una città di mare è che hai un sacco di opzioni in più per impiegare quel tempo che non passa mai, per tentare di gestire quella sensazione di casa che ti brucia sotto al culo, quella smania di fare di tutto pur di non rimanere da solo coi pensieri, le malinconie e quella gran rottura di minchia che sono i ricordi. Opzioni tipo andare al mare, andare a pranzo al mare, andare a bere al mare, andare a buttarsi in mare da una scogliera altissima, andare al mare in bici.
E così un giorno ho preso il mio biciclettone da nonno – che fino ad allora stazionava in camera da letto con la sola funzione di attaccapanni – mi sono vestita come se stessi uscendo a far pisciare il cane e ho pedalato fino a Lerici: da Spezia, una ventina di chilometri fra andare e tornare, praticamente piani, a parte un paio di strappetti di poche centinaia di metri che per me erano come scalare lo Stelvio.
Un’impresa a dir poco eroica.

Credo sia stato un po’ come quando i maschi di mezza età divorziano e si comprano l’auto da bomber o si iscrivono in palestra per poi passare l’estate in spiaggia a mostrare i petti alle giovanotte.
Intendo quel meccanismo per cui in determinati momenti della vita, anziché andarci a buttare dalla scogliera altissima di cui sopra, ci inventiamo qualcosa che ci restituisca quel po’ di amor proprio che ci faccia guardare nello specchio e dire: porca puttana, sai cosa? Sono un figo.
Non mi viene in mente uno stereotipo corrispondente per le donne di mezza età, categoria alla quale ho peraltro recentemente scoperto, con rassegnato disappunto, di appartenere: al telegiornale davano una notizia del tipo “donna di mezza età trovata morta male; aveva 40 anni”. Merda.