– Quest’acqua è magica – mi dice quando mi avvicino alla fontana per riempire la borraccia. Sta seduto a prendere ombra su una panchina lì a fianco: ciabatte di plastica, bragoni chiari poco sotto il ginocchio, camicia celeste aperta su una canotta bianca. Non molto diverso dal mio outfit estivo, se non fosse per le ciabatte, che non uso volentieri perché mi stanno malissimo e mi fanno sentire una signorottona che va in Piazza del Mercato a comprare il tonno. Se state pensando che anche sembrare un vecchio che boccheggia su una panchina non sia un’ambizione degna di una giovanotta di quasi quarantadue anni, lasciatemi dissentire.
– Addirittura? – gli dico.
– Eh sì eh! Podenzana c’ha quasi vinto due campionati del mondo.
“In che senso? Fanno i campionati del mondo dell’acqua?” vorrei rispondere, ma per fortuna non faccio in tempo perché, forse notando il mio sguardo confuso, sente il bisogno di accertarsi:
– Conosce Podenzana, vero?
– Sì, sì, certo! – rispondo, anche se in realtà per me Podenzana è un posto dove si mangiano i panigacci buoni.
– Eh, lui si allenava sempre qui e beveva da questa fontana. Acqua magica!
– Ah, ma per me mi sa che non basta l’acqua magica.
– Perché, non ce la fa?
“A fare cosa?”, vorrei dire. Ma di nuovo mi fermo in tempo.
– Lei è professionista? – insiste.
– See, io sono una cialtrona!
– Cos’è?
– Una cialtrona! – Ripeto, ostentando un sorrisone.
Gira le spalle quasi deluso, alza le braccia mimando un cavatappi e si allontana lentamente, sospirando:
– Non si può essere tutti campioni.
Eh no, non si può. C’è bisogno di perdenti, perché esistano i campioni.
L’acqua magica, comunque, sapeva di ferraglia, e a me è rimasta solo una gran voglia di panigacci.
Al baretto dell’Acquasanta
Al baretto dell’Acquasanta hanno solo birre con il genitivo sassone come la Beck’s e la Tennent’s e se chiedi non dico una Brooklyn ma, che ne so, una Moretti, ti dicono NO con le braccia a X come Mara Maionchi. Però hanno il chinotto e la gazosa della Lurisia, che è roba da super pro.
Al baretto dell’Acquasanta, se ordini una pasta alla crema, dopo aver ravanato un po’ nella vetrina te ne porgono una sfinita dalla vita dicendo “g’ho ‘sta chì, ma l’è ‘n po’ spiacicà”, con una faccia fra il desolato e il fottesega.
Al baretto dell’Acquasanta che tu ci vada alle otto del mattino o alle quattro del pomeriggio, qualsiasi giorno della settimana sia, ci trovi sempre le stesse persone, sedute ai tre tavolini sotto il pergolato, in una terrazza dove ce ne starebbero almeno altri dieci, di tavoli. Alle sette di sera invece non ci trovi nessuno perché è già bello che chiuso da un’ora.
Al baretto dell’Acquasanta ti ci fai lasciare i pacchi di Amazon quando il corriere non c’ha voglia di cercare casa tua. O quando anzi che aspettarlo te ne vai al mare alla facciaccia sua.
Al baretto dell’Acquasanta tutto è esattamente come sembra, proprio come la scatola di Dissenten esposta con discrezione sul bancone, fra le caramelle e le bustine di zucchero.
Resistenza
Stamattina sono andata a correre.
Rimanendo in quei duecento metri di merda da casa, creando un solco nella pavimentazione tale da accelerarne sensibilmente l’erosione, sotto gli occhi vigili dei Vigili, mi sento ogni volta come Piper Chapman nel cortile di Litchfield.
Sì, lo so che non siamo davvero in galera e che so un cazzo dell’inferno che è la galera (come del resto le tizie di Orange Is The New Black). E già che ci sono: sì, lo so che non siamo in guerra, e so un cazzo dell’inferno che è la guerra. Del resto pure chi sta in guerra e in galera sa un cazzo dell’Inferno.
Stamattina sono andata a correre e per la prima volta non ho incontrato nessun delatore, non ho incrociato nessuno sguardo di disapprovazione. Non che mi sia dispiaciuto, ma ho avuto la sensazione che fossimo tutti diventati pratici, abituati. E l’abitudine non è adattamento, come va tanto sbandierare di ‘sti tempi, come se fosse un superpotere dell’essere umano. L’abitudine è rassegnazione. Ci stiamo rassegnando.
A pranzo mi sono bevuta due spritz e durante il giorno ho fatto secca una bottiglia di vino rosso, ho ascoltato quelle quindici volte Bella Ciao e ho ballato i Modena City Ramblers come manco nel duemila.
Cioè, veramente manco nel duemila. Chi cazzo ha mai ballato in pubblico.
In effetti non ho mai ballato tanto quanto in questa quarantena.
Dopo cena sono andata a buttare la spazzatura e c’era una temperatura perfetta, un’aria fantastica, un profumo di fiori che mi chiedo perché non mi abbia fatto starnutire.
In giro nessuno, tranne i rider delle pizzerie e i padroni dei cani brutti, perché quelli che c’hanno i cani belli a quanto pare preferiscono sfoggiarli di giorno.
Sono andata a vedere se c’era ancora la macchina: c’era.
Sono andata a vedere se c’era ancora lo scooter: c’era.
Sono tornata alla macchina per vedere se la pioggia aveva lavato la merda di piccione: no.
Sono andata in Piazza Saint Bon a sentire se il profumo di fiori veniva da lì: sì.
Insomma, ho ripercorso gli stessi solchi tracciati al mattino correndo, per venti o forse trenta minuti, sentendomi sia benissimo che una fuorilegge, col terrore che ogni auto fosse quella degli sbirri manco stessi spacciando eroina fuori dalle scuole, respirando forte, guardando nelle finestre dei palazzi, notando le travi di legno nei soffitti, le diverse tonalità di luce, di vernice, i diversi accenti, le diverse lingue provenienti da ogni appartamento.
È rassicurante quando le strade sono vuote ma le case sono vive. Mi sembra che tutti veglino su di me. Che idiozia.
Poi ho pianto. Di fronte al confine invisibile dei duecento metri, invisibile e impalpabile, ma comunque invalicabile, come un muro magnetico o elettrificato, ho pianto.
Ho camminato per un altro po’ piangendo.
Ho incrociato un altro paio di padroni di cani brutti.
Incredibile ‘sta cosa che ci sia un orario per i cani brutti.
Dio quanto li amo, i cani brutti.
Quando si potevano varcare i confini regionali
Quando un ligure varca i confini regionali e cerca una focaccia decente per placare la fame e la nostalgia, trova solo delle gran delusioni e gli gira il belino perché dai, cos’è stammerda, piuttosto mi mangiavo un pacchetto di Rodeo. Però allo stesso tempo gli scatta l’orgoglio campanilistico e si gasa, perché deh, aloa, la fugassa, me chì, me là… anche se lui non sa manco accendere il forno.
Quindi va bene se sei a Fidenza o a Casalpusterlengo e al posto della focaccia ti rifilano un panaccio alto, asciutto e intriso di strutto. Ma non a Spezia. A Cadimare. A San Terenzo. A Monterosso. Al Canaletto. No, è inaccettabile. Perché la focaccia, se sei spezzino, se sei ligure, è una roba importante, almeno quanto il mare. E nella focaccia, razza di criminali, ci va lo stramaledetto olio.
Fiumaretta
Stamattina mi sono svegliata con una gran voglia di morire, che ha fatto presto a diventare terrore di morire quando, grattandomi la testa, ci ho trovato un bozzo. Tutt’ora ignoro se sia un brufolo, una legnata presa nella notte in circostanze misteriose, o un bruttissimo male; nel dubbio ho deciso di non toccarmi più la testa fino al 2020. Perché fanti, quando dicono di stare attentissimi a quello che si desidera, non è proprio una cazzata.
Per sfuggire a questo dicotomico senso di disagio, aggravato dall’invadenza sonora della pessima playlist musicale selezionata dall’assessore al Natale, sono andata a farmi un giro. Un giro debosciato e senza fantasia che mi ha portato a Fiumaretta.
A volte i luoghi sembrano chiamarti: per farti ricordare qualcosa, per fartici fare pace, o perché, come tutti, hanno bisogno di essere guardati.
Fiumaretta, in estate, dal punto di vista balneare è una meta abbastanza sfigata, se sei un local. Però se ci vai come i miei alle 8 del mattino, trovi parcheggio e la vita ti sorride. E poi ricordo che c’era un sacco di spazio per scavare le piste delle biglie col culo, quando io e mio fratello eravamo bimbetti e ce ne strasbattevamo del paesaggio e della limpidezza del mare, che avremmo fatto il bagno anche nelle pozzanghere.
Invece d’inverno quei posti lì, come anche Marinella e tutte le spiagge della Versilia, hanno il loro perché. Un perché fatto di desolazione, abbandono e degrado: la natura che, finalmente lasciata in pace, si sbraga e si lecca le ferite.
Il mare di oggi era un mare decisamente sbragato. Sporco, maleodorante e chiassoso. Ed è curiosa la sensazione di pace e meraviglia che un elemento così disordinato e carico di inquietudine è in grado di trasmettere.
I tramonti
I tramonti sono una di quelle cose che piacciono a tutti: scontati, puntuali, ma mai uguali.
Avevo una ragazza, quand’ero ragazza: occhi celesti, capelli ramati, labbra rossissime, il viso un po’ pallido con le guance rosate: sembrava un tramonto. Non un tramonto in città, fra i palazzi, che rimbalza sulle finestre e negli specchietti delle auto in coda ai semafori; un tramonto che cade nel mare, dall’alto, di quelli che te li devi guadagnare.
A volte ho paura di essere una di quelle persone che si crogiolano nel passato, perennemente malinconiche, cronicamente nostalgiche. Eppure, del mio passato, mi mancano più le cose che non ho mai fatto di quelle che, spesso a malapena, ricordo. Ma, forse, è proprio questo il punto.
A Lerici, al tramonto, siamo tutti in fila coi telefoni puntati verso lo stesso orizzonte, con la stessa inquadratura e in faccia lo stesso stupore un po’ sciocco e banale.
Accanto a me, un uomo armato di macchina fotografica non riesce a trattenersi dal commentare ad alta voce, con accento inequivocabilmente toscano, che suona più o meno così: “bada he spettaholo”. Io sorrido, perché mi fa pensare a un tizio buffo che ho sentito alla radio; lui lo coglie come un segnale di via: mi racconta che è di Firenze (oh, ma pensa) e mi elenca i millemila motivi per cui adora la sua città, ma ogni volta che viene qui a trovare la sua compagna non vorrebbe mai andare via. Dice che lei va raramente da lui, perché per quanto sia bella Firenze, dopo un po’, lontano dal mare, si sente soffocare. E io, pur sforzandomi di tenere a bada il mio sfacciato campanilismo, non posso che dichiararmi d’accordo.

Montimarzei #2
Dal punto panoramico di Montemarcello c’è una vista che se non ci sei abituato rischi che ti si spezzi il cuore. Se lo sei, invece, ti si spezza di sicuro. Nella mia personale classifica dei luoghi più belli del mondo, è senza dubbio al primo posto. Si potrebbe obiettare che non è che ne abbia visto poi molto, io, di mondo. Ma in fondo anche le nostre persone preferite, quelle a cui giuriamo che con nessun altro vorremmo passare la vita, le scegliamo fra una cerchia piuttosto ristretta di esseri umani, rispetto al totale della popolazione terrestre.
Al punto panoramico di Montemarcello, certe sere d’estate, non c’è un posto libero in cui sedersi a guardare il tramonto, come allo stadio durante la finale dei Mondiali, o al cinema il primo giorno di uscita del filmone coi controcazzi che determinerà il trend dei travestimenti carnevaleschi per l’annata in corso.
Nelle stagioni più fredde è più facile riuscire a godersi lo spettacolo in quasi totale solitudine, oppure, se si è fortunati, in compagnia dei tre gatti randagi che abitano la zona. Di loro si occupa un signore, con cui scambio spesso qualche parola. Mi ha raccontato che una volta erano tredici, poi alcuni sono stati adottati e altri sono morti. Ogni giorno porta loro pesce bollito e croccantini e si assicura che ingrassino abbastanza da sopravvivere all’inverno, perché ha imparato da un documentario che col freddo il corpo brucia di più.
Dice di essere solo e che questa cosa dei gatti lo tiene impegnato; lo ripete spesso, come se volesse che gli si chiedesse di parlarne. Io mi limito a fargli notare che in fondo è in ottima compagnia, i gatti sembrano volergli bene, e poi il posto non è dei peggiori. Gli racconto che vado lì da quando sono bambina e concordiamo sul fatto che quella vista non stanchi mai e che non esista un giorno che sia uguale a quello prima. Mi indica lo squarcio fra le nuvole grigie da cui filtra con prepotenza il sole, creando un riflesso incandescente sul mare: lo chiama “il faro”, dice che è raro.
Cacarsi

Ogni volta che vengo qui faccio la stessa foto. Cambiano le stagioni, il colore del cielo, la posizione della bici, ma è sempre la stessa inquadratura. Quella strada so dove porta ma non l’ho mai percorsa per più di qualche centinaio di metri perché mi caco. È una roba stupida che fa tanto parte di me, cacarsi per cose semplici per cui non c’è niente da cacarsi. Una roba stupida che mi fa restare lì, seduta su quel masso a forma di bara, a guardare quel panorama infinito come se lo stessi rubando a qualcuno che se lo merita di più.
Chiusa una strada si apre un sentiero
Chiusa una strada si apre un sentiero.
Che detta così sembra un pacco, ma anche quella del portone non mi ha mai convinta molto. Voglio dire, dobbiamo proprio farne una questione di dimensioni? Che poi ci tocca stabilire se contano o non contano e finisce in caciara con tutti giù a ridere pensando a cazzi e cazzetti che dai, diciamolo, son sempre buffi.
Oggi avevo deciso che sarei andata in bici, ma poi erano le due, e poi le tre, e poi c’ho sonno, e poi mi tocca vestirmi, e poi farà caldo? Ma quanto caldo? E se mi ammalo? E se mi ammazzo? Sto a casa, dai. Eh, però c’è il sole. Dove vorrei essere ora? Al mare. A letto. Su un lettino al mare. Su un materasso galleggiante in mezzo al mare. In bici. Vado.
Volevo andare alle Cinque Terre, mi sembrava la meta giusta per santificare una domenica di sole da sola.
E invece: presa a cantare le peggiori hit del momento, ho mancato la svolta e, siccome il mio regolamento personale mi vieta di tornare indietro salvo cause di forza maggiore, ho proseguito fino a Beverino con l’intenzione di ripiegare su un giro sfigatissimo della Val di Vara.
E invece #2: mi sono trovata di fronte a una strada chiusa con recinzioni invalicabili, mentre un uomo in panza e slippini mi suggeriva di sfondare tutto con la forza bruta, di cui, signor slippini mi voglia perdonare, sono del tutto priva.
La fine e il senso della storia è che ho deviato sul Sentiero dei Tedeschi, mi sono persa intorno a un campo di sterpaglie da cui non ero mai passata prima, mi sono infangata fino alle gengive e mi sono divertita come una sciocchina.
E non posso fare a meno di pensare che sia una metafora di questa stramaledetta vita, il fatto che i sentieri, per quanto sporchi e cattivi, possano offrire paesaggi migliori e maggiore divertimento delle comode strade asfaltate.
Montimarzei
Le tre strade che portano a Montemarcello sono tra le più frequentate dai ciclisti locali e anch’io, che sono una ciclista finta che pedala solo per fare le foto fighe e avere una scusa per sfondarsi di focaccia, le percorro almeno una volta al mese.
I motivi sono semplici: da qualsiasi parte si salga o si scenda, la vista è sempre appagante; tre salite diverse permettono di diversificare e, avendone il tempo e volendo faticare di più, si può salire e scendere per poi risalire, senza comunque annoiarsi; per andare e tornare basta avere a disposizione un paio d’ore.
A Montemarcello ho trascorso tutte le estati della mia infanzia: passavo le giornate a lanciarmi giù dalle discesine del paese con lo skate o con un’orribile Graziella, oppure andavo al mare con mio papà, scendendo a piedi quei famosissimi 700 gradini che portano alla spiaggia di Punta Corvo, che a contarli avevo avevo già perso il filo dopo il decimo.
Ogni giorno, alle 16 in punto, dopo il rituale conciliabolo di famiglia in cui ognuno sceglieva quale gelato prendere, facevo merenda col Cialdone, mentre la sera andavo al baretto con mio zio (“oh bimbi, si va a vivere?”) a bere la spuma e a giocare ai videogiochi. Proprio nella sala giochi del bar, una volta diedi un pugno a un bambino, reo di avermi chiamata Maìna; avessi riservato lo stesso trattamento a tutti quelli che, nel corso della mia vita, mi hanno chiamato così per via della mia erre moscia, sarei probabilmente in galera, oltre che orfana.
A Montemarcello le signore del paese che incontravo mi chiedevano “de chi te sen?” (“di chi sei figlia?”), per scordare immediatamente la risposta e riproporre la stessa domanda ogni puntualissima volta, in un loop senza fine saturo di imbarazzo, monosillabi e guance in fiamme.
A Montemarcello sono ambientati la maggior parte degli aneddoti che mia mamma mi racconta da una vita, conditi da filastrocche ed espressioni dialettali che mi fanno sempre molto ridere, anche perché da lei, che parla quasi senza alcuna inflessione, il dialetto non te lo aspetti.
La casa in cui mia mamma è cresciuta, la stessa in cui passavamo le vacanze, non è più della nostra famiglia, ma è sempre lì, e ogni volta che ci passo davanti mi fermo e sbircio dentro al cortile, indugiando abbastanza a lungo da rischiare una denuncia.
A Montemarcello ho un sacco di parenti, ma sono tutti al cimitero, dove non vado né spesso né volentieri perché i cimiteri sono un’invenzione che non ho mai del tutto compreso.