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Vorrei non fosse il mare

vorrei non fosse il mare a calmarmi
ma il lampeggiare ritmato
delle auto in doppia fila

vorrei non fossero le onde a darmi pace
ma il tintinnio orchestrale delle posate
nei ristoranti affollati del centro

vorrei non fosse quel moto tormentoso
ad alleviare le mie ansie
ma il solido cemento che calpesto

vorrei non fosse il sale il sapore che cerco
quando abbracciandomi le ginocchia
le assaggio con un bacio

Mare

Non capisco quelli che al mare ombrellone, lettino, cappello sulla faccia, spruzzino per star freschi, al bar ogni mezz’ora, doccia dopo il bagno, oimeo che caldo, oimeo si muore, oimeo si stava meglio a ca’.
Io al mare sono un tomino alla griglia, sono grasso che cola.
Mi piace sentire la pelle bruciare, il leggero solletico provocato dalle gocce di sudore mentre scendono lungo il corpo, tuffare il dito nella pozza che si crea nell’ombelico.
Il segno dei sassi sulla pancia, la ricerca dello scoglio perfetto, modellare la sabbia perché si adatti alle mie forme.
Mi piace immergere in acqua le punte delle dita e poi piano piano tutta la mano e sentirla sgonfiarsi lentamente.
Raggiungere una temperatura corporea tale che quando entro in mare immagino alzarsi una nube di fumo come quando lavi una padella appena tolta dal fuoco; cambiare colore da rosso a blu come nei cartoni animati.
Mi piace il sale sulla pelle, sotto ai vestiti,
mi piacciono i capelli sconvolti ma definiti.
Mi piace perdere quantitativi considerevoli di liquidi e reintegrarli a fine giornata con l’equivalente in birra. O in vino bianco. O in bruschette al pomodoro.

Tutto bello, costa poco

“Tutto bello, costa poco”
“No, grazie”. Accenno un sorriso ma alzo a malapena lo sguardo.
“Sei sola? Dov’è tuo fidanzato?”
Mi viene da ridere ma non rido, non dico nulla, indico il mare col mento.
“Surfista?” mi chiede.
“Sirena” rispondo.

Prosegui dritto in direzione stocazzo

Ve lo ricordate Out Run? Dai, quel gioco fighissimo degli anni ottanta in cui guidavi una Ferrari rossa scapottata su stradoni infiniti costeggiati da palme, deserti e piantagioni di pixel, e dovevi stare attento a non schiantarti contro le altre auto da poveri mentre sfrecciavi senza meta insieme alla tua ragazza bionda coi capelli al vento, e intanto l’autoradio ti sparava dei midi pazzeschi. E chi stava meglio di te.
Scendendo da Via XX Settembre all’alba verso il molo, coi profili neri delle palme, il cielo rosa, il mare rosa, i riflessi rosa sulle auto ferme al semaforo, sembra di stare in un livello di Out Run.

Sedici chilometri dopo, inizio la salita. La strada è così sgombra e silenziosa che mi ricorda le prime uscite post quarantena.
Il giro ce l’ho in mente da tempo: salire ai Casoni e percorrere l’Alta Via Dei Monti Liguri fino al Passo del Rastello, che in alcuni cartelli chiamano Rastrello, ma tanto io c’ho l’erre moscia e non mi cambia niente. Da lì, raggiungere il mare, farmi un bagno, bermi ‘na birra e tornare a casa in treno.
La salita per i Casoni l’avevo fatta solo una volta, qualche anno fa, e me la ricordavo mortale. Ricordavo bene.
Quello che non ricordavo erano i tafani. Combattere coi tafani mentre cerchi di tenere la ruota anteriore a terra su una pendenza del venti per cento non è una roba comoda. Tafani sulle gambe, sulla faccia, sul sedere attraverso i vestiti. Ho sempre pensato di attrarli per via del sudore, mi sono anche chiesta se emanassi odori equini o bovini, poi Google mi ha detto che a sti stronzi piacciono i colori scuri, perciò vestirmi da becchino quando vado in bici a quanto pare non aiuta.
Quando arrivo su, mi fermo alla trattoria/bar per prendere da bere. Chiedo un Estatè al limone e due bottigliette d’acqua naturale e ottengo Estatè alla pesca e acqua frizzante, come in quella puntata dei Simpson in cui Marge ordina un caffè in un bar australiano e le danno della birra, e ogni volta che prova a scandire “caffè”, il tizio ripete “birra”.
Riparto con l’Estatè alla pesca in tasca e le borracce piene di acqua frizzante, che fanno quel rumore delle lumache quando le butti a bollire, che è tipo un “ghiiii” straziantissimo, che lo so che non è che fanno ghiiii perché strillano, ma è comunque uno strazio che dico come cazzo vi viene in mente di mangiarvi le lumache?
Sull’Alta Via non incontro nessuno, solo cavalli e mucche.
Cavalli sexy, con dei culi della madonna che mi fanno dire cosa ci vado a fare in bici per averci sto culaccio mollo qua. Il cavallo, dovevo fare.
E tantissime mucche libere che un po’ mi fanno soggezione, così tante e così vicine, ma tanto a loro frega solo di mangiarsi l’erbino buono. Mi fanno una gola che me lo mangerei pure io, quel cazzo di erbino.
Che bravone, le mucche. Se un gatto fosse grosso quanto una mucca, ti farebbe un culo così. Le mucche no, le mucche son dei bravi fanti.

A Sesta Godano il navigatore mi porta in una strada cieca che prometteva un castello e invece mi fa finire in un cimitero. Ma almeno c’è una fontana, dove mi rifornisco mentre “prosegui dritto in direzione…” Stocazzo. In direzione stocazzo. Riparto.
Sono già abbastanza demolita e comincia a fare caldo, ma mi dico che il peggio è passato e che da qui è quasi tutta discesa.
L’ultima salita è quella che da Mattarana porta al Bracco: un’ascesa dolce, con pendenze modeste, ma che ora mi sembra eterna.
So che devo raggiungere 580 metri di altitudine e comincio a fare un conto alla rovescia con gli occhi fissi sul Garmin. A voce alta: centoventuno… centoventi… centodician… centoventi… centodiciannove… centodiciotto!
Il bivio per Framura è una visione. Il mare, è una visione. Mi scoppia il cuore e non so se sto morendo o se sono felice o se sto morendo di felicità.
A Bonassola la spiaggia è semivuota e l’acqua calda, calma e trasparente.
È il nove di settembre. Ho quarantuno anni e un giorno.
Avere quarant’anni è come stare a cavalcioni su un muro e guardare un po’ da una parte e un po’ dall’altra; a quarantuno ti sparano una sassata e caschi giù dal muro. E così a ogni decade, perché siamo scemi, e ci facciamo condizionare dal tempo, dai numeri, dalle ricorrenze, dalle aspettative, dalla smania di significare qualcosa, di servire a qualcosa, di lasciare qualcosa.
Però che roba, settembre.
Che roba, essere al mondo.

Mare mosso

Quelli che il mare mosso l’affrontano a testa alta, camminandogli incontro con passo marziale, senza indugio e senza paura, fieri come si va verso una morte da eroi.
Quelli che aspettano l’onda più alta per tuffarcisi dentro come squali, riemergere mezzo chilometro più avanti e nuotare verso la riva con la foga di un labrador che insegue un legnetto.
Quelli che ci si immergono fino alla vita, inamovibili e saldi come querce, appigli per bambini rotanti, inetti incespicanti, belinoni a gattoni.
Quelli che tergiversano sul bagnasciuga, mani sui reni, sguardo contratto, incapaci di trovare un minimo di stabilità: un passetto avanti e due indietro.
Quelli che entrano di schiena, sperando che qualche dio gliela mandi buona.
Quelli che entrano di lato, illudendosi di fendere le onde e uscirne asciutti e illesi.
Quelli come me, che lo affrontano col disagio e la rassegnazione di chi si trova a dover fronteggiare un brutto ceffo che lo vuole strattonare, soffocare e prendere a schiaffoni.

Invasori

Ci rubano il posto in spiaggia, il parcheggio, l’ultimo pezzo di focaccia, il tavolo alla sagra del muscolo.
Ci rubano il mare, i panorami, i tramonti, gli hashtag su Instagram.
Ci rubano settembre nei giorni feriali.

Niccolò ha 5 anni ed è di Modena, ma passa tutte le estati a Bonassola.
Sua mamma è incinta di un bimbo che nascerà quando lui avrà 18 anni e la Ferrari che gli ha promesso papà.
Niccolò è un invasore.

Al bar di Montaretto ci sono solo vecchi. Smettono di parlare quando mi vedono arrivare, non so se straniti, incuriositi o indispettiti dalla presenza di qualcuno che non conoscono.
Sono un invasore.
Poso la bici, ordino un succo orrendo, mi siedo due tavoli più in là e finalmente riprendono a chiacchierare.
A Montaretto, frazione di Bonassola, provincia della Spezia, parlano più genovese che spezzino.
Il genovese suona un po’ come il portoghese, ma con meno saudade e più cinismo.
Se non ho capito male, la signora coi capelli color 5 centesimi deve assolutamente andare dalla parrucchiera, ma sarà un’impresa perché bisogna prendere l’autobus, son tutte curve e l’ultima volta si è sentita malissimo.

Fiumaretta

Stamattina mi sono svegliata con una gran voglia di morire, che ha fatto presto a diventare terrore di morire quando, grattandomi la testa, ci ho trovato un bozzo. Tutt’ora ignoro se sia un brufolo, una legnata presa nella notte in circostanze misteriose, o un bruttissimo male; nel dubbio ho deciso di non toccarmi più la testa fino al 2020. Perché fanti, quando dicono di stare attentissimi a quello che si desidera, non è proprio una cazzata.
Per sfuggire a questo dicotomico senso di disagio, aggravato dall’invadenza sonora della pessima playlist musicale selezionata dall’assessore al Natale, sono andata a farmi un giro. Un giro debosciato e senza fantasia che mi ha portato a Fiumaretta.
A volte i luoghi sembrano chiamarti: per farti ricordare qualcosa, per fartici fare pace, o perché, come tutti, hanno bisogno di essere guardati.
Fiumaretta, in estate, dal punto di vista balneare è una meta abbastanza sfigata, se sei un local. Però se ci vai come i miei alle 8 del mattino, trovi parcheggio e la vita ti sorride. E poi ricordo che c’era un sacco di spazio per scavare le piste delle biglie col culo, quando io e mio fratello eravamo bimbetti e ce ne strasbattevamo del paesaggio e della limpidezza del mare, che avremmo fatto il bagno anche nelle pozzanghere.
Invece d’inverno quei posti lì, come anche Marinella e tutte le spiagge della Versilia, hanno il loro perché. Un perché fatto di desolazione, abbandono e degrado: la natura che, finalmente lasciata in pace, si sbraga e si lecca le ferite.
Il mare di oggi era un mare decisamente sbragato. Sporco, maleodorante e chiassoso. Ed è curiosa la sensazione di pace e meraviglia che un elemento così disordinato e carico di inquietudine è in grado di trasmettere.