I tramonti sono una di quelle cose che piacciono a tutti: scontati, puntuali, ma mai uguali.
Avevo una ragazza, quand’ero ragazza: occhi celesti, capelli ramati, labbra rossissime, il viso un po’ pallido con le guance rosate: sembrava un tramonto. Non un tramonto in città, fra i palazzi, che rimbalza sulle finestre e negli specchietti delle auto in coda ai semafori; un tramonto che cade nel mare, dall’alto, di quelli che te li devi guadagnare.
A volte ho paura di essere una di quelle persone che si crogiolano nel passato, perennemente malinconiche, cronicamente nostalgiche. Eppure, del mio passato, mi mancano più le cose che non ho mai fatto di quelle che, spesso a malapena, ricordo. Ma, forse, è proprio questo il punto.
A Lerici, al tramonto, siamo tutti in fila coi telefoni puntati verso lo stesso orizzonte, con la stessa inquadratura e in faccia lo stesso stupore un po’ sciocco e banale.
Accanto a me, un uomo armato di macchina fotografica non riesce a trattenersi dal commentare ad alta voce, con accento inequivocabilmente toscano, che suona più o meno così: “bada he spettaholo”. Io sorrido, perché mi fa pensare a un tizio buffo che ho sentito alla radio; lui lo coglie come un segnale di via: mi racconta che è di Firenze (oh, ma pensa) e mi elenca i millemila motivi per cui adora la sua città, ma ogni volta che viene qui a trovare la sua compagna non vorrebbe mai andare via. Dice che lei va raramente da lui, perché per quanto sia bella Firenze, dopo un po’, lontano dal mare, si sente soffocare. E io, pur sforzandomi di tenere a bada il mio sfacciato campanilismo, non posso che dichiararmi d’accordo.
