Vado in bici, ma non mi definirei ciclista.
Ho un nome che ricorda il mare e che non so pronunciare correttamente.
C’è mancato pochissimo che non nascessi negli anni ottanta.
Vado in bici, ma non mi definirei ciclista.
Ho un nome che ricorda il mare e che non so pronunciare correttamente.
C’è mancato pochissimo che non nascessi negli anni ottanta.
vorrei non fosse il mare a calmarmi
ma il lampeggiare ritmato
delle auto in doppia fila
vorrei non fossero le onde a darmi pace
ma il tintinnio orchestrale delle posate
nei ristoranti affollati del centro
vorrei non fosse quel moto tormentoso
ad alleviare le mie ansie
ma il solido cemento che calpesto
vorrei non fosse il sale il sapore che cerco
quando abbracciandomi le ginocchia
le assaggio con un bacio
Sembri tua madre:
la pigrizia
la pazienza
il cappuccino a metà mattina.
Sembro tuo padre:
l’irascibilità
le passeggiate al molo
il vino rosso con l’acqua frizzante.
Sembro mia madre:
gli attacchi di panico
le diagnosi su Google
i gossip di quartiere.
Sembri mio padre:
la guida sicura
i silenzi impassibili
i documentari sugli animali.
Sembro tua madre:
il “bah” come risposta
i soprannomi dati a tutti
la paura di morire
Sembri tuo padre:
i mercati dell’usato
il giornale con l’inserto
la voglia di partire.
Sembri mia madre:
le buone maniere
i libri di storia
i sorrisi confusi.
Sembro mio padre:
il legalismo
la raccolta differenziata
l’atletica in tv.
I lampadari in cristallo finto
la kenzia stanca nell’ingresso
le cornici di argento spento
come i sorrisi di cui sono ornamento
Una Madonna di gesso sbiadita
le tende cipria in tessuto spesso
il divano di pelle raggrinzita
il velo pietoso che lo tiene in vita
Il panettone preso a ottobre impolverato
la pastorella del presepe mutilata
Maria Rita stesa a terra senza fiato
dal Natale per sempre liberata
Fai come il vento, come il mare
come pioggia sopra i tetti
di amianto in arsenale:
rumore.
Fai come un’ombra, come un salto
come un urlo nel bel mezzo
di una notte tempestosa:
paura.
Fai come vuoi, come noi
come il sole dietro i monti
alle diciotto a Bonassola:
scompari.
E allora mi sono sentita come quei reggiseni stanchi, scuciti e macchiati di sudore che si trovano inaspettatamente allo scoperto quando speravano di non essere notati da nessuno, gettati senza troppa cura su pavimenti sconosciuti e lì dimenticati, nascosti dalla polvere, dalla notte, dai vuoti di memoria, in attesa di diventare spazzatura o malinconici cimeli.
Sono morta per i morti
non è stata una sorpresa
Sono morta un po’ alla volta
come un fiore in un bicchiere
Sono morta il due novembre
non è stato un dispiacere
Stavo immobile seduta
sola tra le coccinelle
Sono morta a novant’anni
non è stata una gran cosa
L’aspettavo ed è arrivata
come il fischio a fine gara
e allora saremo come gli altri
come gli stronzi
come quelli tra carne e pesce
fatti di nulla
di polvere
di suoni scordati
di pareri discordanti
di pareti crepate
come la terra in estate
come le mani in inverno
come i cuori dimenticati
stesi
ad asciugare
– September came…
– My ribcage bent. Sì, la so. La canti ogni anno.
– Che palle.
– Dimmelo a me…
– Settembre andiamo è tempo di migrare?
– E dove te vè?
– So un belino, non c’ho manco il passaporto.
– E alora.
– Sto diventando grande anche se non mi va?
– Eh, bòna.
– Ma lo sai che i fratelli Righeira son nati quasi quando me?
– E belin, quanti anni c’hai?
– E dai, il giorno.
– Ma tutti e due?
– No, uno, ma l’altro a ottobre.
– E quindi?
– E quindi per quello che diventavan grandi alla fine dell’estate.
– E non gli andava…
– Eh!
– Come a te.
– Eh!!
– Quindi una vita a fare l’indie snob, e poi la tua canzone-guida è L’Estate Sta Finendo.
– Guarda che è un pezzaccio, eh!
– Sì, sì…
– Ma sai che m’è successo oggi?
– Cosa.
– M’han dato del lui!
– Di nuovo…
– Delle suore!
– E quindi?
– E quindi c’ho le tette e la cellulite, suore di merda!
– Sì, ma ti succede ogni giorno da quando sei al mondo.
– Da meno, dai.
– Perché da bambina c’avevi i capelli lunghi e ti mettevano quelle gonnacce scozzesi e i sandaletti con gli occhietti.
– Quanta conformità tra le bimbe degli anni ottanta.
– Però non ti davano del lui.
– Forse avrei voluto.
– Ah sì?
– Sì, perché i maschi li vestivano meglio.
– Ma insomma…
– Tipo il grembiule nero a giubbottino l’avrei troppo voluto. E invece no.
– Grembiulino lungo a quadrettini rosa e caminare.
– Chemmerda.
– Per quello che ora ti vesti da H&M bimbo?
– Forse. Come quando vai a vivere da solo e campi a merendine e schifezze perché i tuoi non te le facevano mangiare.
– Ci sta.
– Belin.
– Biretta?
– Belin!
– Ma quant’è che ne fai?
– 43.
– Belin.
– Lo so.
Non capisco quelli che al mare ombrellone, lettino, cappello sulla faccia, spruzzino per star freschi, al bar ogni mezz’ora, doccia dopo il bagno, oimeo che caldo, oimeo si muore, oimeo si stava meglio a ca’.
Io al mare sono un tomino alla griglia, sono grasso che cola.
Mi piace sentire la pelle bruciare, il leggero solletico provocato dalle gocce di sudore mentre scendono lungo il corpo, tuffare il dito nella pozza che si crea nell’ombelico.
Il segno dei sassi sulla pancia, la ricerca dello scoglio perfetto, modellare la sabbia perché si adatti alle mie forme.
Mi piace immergere in acqua le punte delle dita e poi piano piano tutta la mano e sentirla sgonfiarsi lentamente.
Raggiungere una temperatura corporea tale che quando entro in mare immagino alzarsi una nube di fumo come quando lavi una padella appena tolta dal fuoco; cambiare colore da rosso a blu come nei cartoni animati.
Mi piace il sale sulla pelle, sotto ai vestiti,
mi piacciono i capelli sconvolti ma definiti.
Mi piace perdere quantitativi considerevoli di liquidi e reintegrarli a fine giornata con l’equivalente in birra. O in vino bianco. O in bruschette al pomodoro.
Al primo esame di maturità fui bocciata. Alle private, che non è da tutti.
Al secondo mi sedetti, lessi il titolo del tema, mi alzai e chiesi se potevo andarmene.
Mi dissero di sì, ma che avrebbe significato mandare a puttane tutto l’esame. Con altre parole, probabilmente, ma io ricordo solo il senso, e il senso era quello.
Forse provarono a convincermi a restare, forse no, fatto sta che me ne andai.
Uscita dall’edificio mi misi a piangere e camminai veloce verso la stazione di Brignole. Veloce per allontanarmi da lì, da quel posto, da quella scelta del cazzo. Veloce come la luce sperando che ciò mi rendesse invisibile.
Ero a Genova perché la scuola privata che frequentavo non era abilitata agli esami di maturità. E andava pure bene, perché l’anno precedente li feci a Cortina D’Ampezzo e quindi, insomma, sì: costrinsi i miei a un’evitabilissima vacanza a Cortina D’Ampezzo per oltretutto farmi bocciare.
Di Cortina D’Ampezzo ricordo il peso delle nubi, l’assenza del mare, gli sciatori con gli sci a rotelle.
Alla stazione di Brignole stringevo il telefonino che mi avevano dato i miei genitori perché potessi chiamarli: un Sony CMD Z1 con microfono estraibile. Stupendo. Erano ancora gli anni novanta, eh.
Stringevo questo telefono e piangevo, ed ero a Brignole su non so quale binario ad aspettare un treno che non volevo prendere, cercando il coraggio di fare una chiamata che non volevo fare.
Ma che alla fine feci.
“Mamma, sto venendo a casa”
“Così presto?”
“Già”.
Probabilmente non fu questo il dialogo esatto, ma ricordo solo il senso, e il senso era quello.